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SINTOMO

Se il sintomo medico ha valore di segno, poiché segnala di una lesione, di un danno, di un disturbo di un organo del corpo in maniera, per così dire “oggettive”, cioè a prescindere dalle intenzioni del soggetto, il sintomo psicoanalitico, vale a dire il sintomo nevrotico, ha invece il valore di simbolo se pur di simbolo con effetto di segno, poiché non è un segnale diretto di un guasto nel corpo, ma un messaggio per lo più inconscio - il soggetto lo produce a sua insaputa - per dire che qualcosa non va, non nel corpo, ma nell’animo, nella psiche.

Le caratteristiche del sintomo nevrotico sono dunque: primo, che esso ha il valore di messaggio, quindi è dell’ordine del discorso, del linguaggio, del dire (“il sintomo è un discorso, per questo lo ascoltiamo”, dirà infatti Lacan); secondo, esso rimanda a qualcosa di inconscio, a qualcosa che è stato rimosso e che trova nel sintomo la sola possibilità di essere comunicata a qualcuno (uno psicoanalista) che sia in grado di ascoltarlo e di decifrarlo attraverso quell’atto psicoanalitico che è l’interpretazione; terzo, nonostante il paziente voglia liberarsene per la sofferenza e le limitazioni che ingenera, egli sembra allo stesso tempo resistere strenuamente a qualsiasi tentativo e a qualsiasi cura per abbandonarlo, dando così l’impressione che il sintomo gli serva, e infatti gli serve, sia perché è l’unico strumento di cui il paziente dispone per comunicare qualcosa che non può essere messa in parola, e sia perché - come ha scoperto Freud - gli procura, al di là della sofferenza, anche una sorta di tornaconto secondario, inconscio anche questo, e che è come un “godimento segreto”. 

La psicoanalisi non si interessa però solo del sintomo nevrotico, ma anche di quei sintomi che non sono formazioni dell’inconscio con il valore di manifestazione simbolica del rimosso, ma piuttosto formazioni del soggetto che servono, più che a dir qualcosa, a fare da tenuta a qualcosa, cioè al buco lasciato nella struttura soggettiva dai meccanismi di rigetto o di forclusione, come è il caso rispettivamente delle perversioni e delle psicosi. Anche in questo caso il sintomo contiene un nucleo di godimento, anzi ancor di più, poiché “tenersi in piedi” attraverso una formazione sintomatica che, a differenza del sintomo nevrotico non segue nella sua formazione le leggi dell’inconscio e della sostituzione significante, ma quelle senza regole delle pulsioni dell’Es, è un godimento di per sé.

In entrambi i casi, il sintomo psicoanalitico, nevrotico o no, è comunque ciò che, se da una parte fa soffrire, dall’altra il soggetto produce a sua insaputa: il sintomo serve, serve per vivere, perché non si potrebbe vivere senza comunicare in qualche modo quello che non va o senza potersi in qualche modo sostenere.

Per questo, la psicoanalisi come cura non può che partire da un sintomo giacché si tratta di trovare un modo per dire o per sostenersi che sia più sostenibile e meno doloroso di un sintomo.




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IL SINTOMO NEVROTICO SI ARTICOLA NEL LUOGO DELL'ALTRO

Lacan ha dimostrato, attraverso il metodo del procedimento analitico inaugurato da Freud - metodo che è scientifico e non filosofico - che il sintomo nevrotico si produce nello stesso luogo in cui si producono il discorso del soggetto e la domanda d’analisi.

Vale a dire nel luogo in cui, per effetto della significazione, si determina il significato dell’Altro, in quanto il sintomo, al pari delle altre formazioni dell’inconscio (il sogno, il lapsus e il motto di spirito) si organizza utilizzando le figure retoriche, della metafora e della metonimia, che il soggetto preleva dal luogo dell’Altro, per questo indicato da Lacan come “tesoro del significante”.

In altri termini, il sintomo è sì il particolare del soggetto, ma è un particolare che si articola sempre nel luogo dell’Altro, e grazie alla legge sostitutiva del significante: la sostituzione metaforica nel sintomo isterico, quella metonimica nel sintomo ossessivo.

Il sintomo, dunque, è un discorso, è un dire di sé all’Altro: “L’inconscio è il discorso dell’Altro”, il famoso assioma di Lacan, vuol dire infatti proprio questo, che tutto ciò che nell’inconscio si produce è sempre dell’ordine di un discorso per l’Altro, in quanto, come abbiamo visto, l’inconscio, e dunque anche il sintomo, “è strutturato come un linguaggio”. 

Per questo l’analista può decifrare e interpretare il sintomo, giacché è un discorso che lo riguarda, e non solo perché a lui indirizzato, ma anche perché egli è sempre implicato nell’inconscio del proprio analizzante, essendo “impastato” della stessa materia significante, vale a dire condividendone i significanti.

È nello scritto “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi” (in “Scritti”, vol II, pag. 545-546, Einaudi, 1966), che Lacan pone la questione del sintomo come “elemento del discorso particolare” che, nella sua “fissità da sintomi” è nell’Altro che si articola:

“Le tensioni, le sospensioni, i fantasmi che l’analista incontra gli testimoniano che il soggetto è come bagnato dalla questione della sua esistenza, che lo sostiene, lo invade o lo lacera da ogni parte; ma ciò avviene a titolo di elemento del discorso particolare, in cui nell’Altro tale questione si articola. Giacché se quei fenomeni hanno una fissità da sintomi, se sono leggibili e si risolvono una volta decifrati, è perché si dispongono nelle figure di questo discorso.” 

SINTOMO PSICOANALITICO E SINTOMO MEDICO

Il sintomo della psicoanalisi e quello della medicina non sono dello stesso ordine. 

 Il sintomo psicoanalitico appartiene all'ordine del simbolo. Vuole cioè significare qualcosa che rimanda non ad un guasto del corpo, ma ad un "discorso" che il soggetto non può dire in altro modo se non attraverso quel sintomo. Per questo, in quanto "discorso", va ascoltato e, se possibile, "interpretato", affinché il paziente possa mettere in parola ciò che è costretto a mettere nel sintomo. E a questo risponde la psicoanalisi e solo la psicoanalisi. 

Il sintomo medico, invece, appartiene all'ordine del segno: è la diretta emanazione, non simbolica, ma reale, di qualche cosa che si è ammalata nel corpo, qualcosa che va correttamente individuata e curata affinché possa guarire. 

Di conseguenza è auspicabile che un sintomo psicoanalitico possa essere adeguatamente ascoltato, e decifrato, e non sbrigativamente ridotto al rango di sintomo medico, vale a dire che venga inteso come discorso e non scambiato come indizio di una malattia.

Laddove invece si dovesse trattare di un sintomo medico,un paziente ha tutto il diritto di sperare che non si sia già determinato un danno organico, e cioè che il suo sintomo sia il più presto possibile riconosciuto dal medico come indicatore di ciò che deve essere adequatamente esplorato e curato.

Anche perché molti sintomi medici insorgono prima che si determino alterazioni d'organo. 

Sapersi orientare tra i diversi tipi di sintomo è dunque importante: ne può andare di mezzo la vita di un paziente. Saperci fare con i sintomi è doveroso per chi ha la responsabilità della cura. E' una questione soprattutto di etica. 

E dunque, tanto per dire, così come un medico, che in genere è abbastanza a digiuno tanto di psicologia quanto ancor di più di psicoanalisi, dovrebbe stare molto attento a non ritenere un sintomo psichico dello stesso ordine di un sintomo medico, allo stesso modo uno psicologo, o uno psicoanalista, soprattutto se non medico, dovrebbe viceversa tener sempre presente che esistono anche sintomi solo apparentemente psichici, ma che in effetti, a ben vedere, più che dell'ordine del simbolo, sono dell'ordine del segno (per esempio, alcuni tumori cerebrali si possono all'inizio manifestare esclusivamente attraverso sintomi ansioso-depressivi, e iniziare una psicoterapia ad uno che ha un tumore al cervello scambiando per un depresso non è la cosa migliore che si possa fare). 

Quindi, non scherziamo con i sintomi e cerchiamo di essere sempre "dottori".

IL DIRITTO AL SINTOMO

Qual è la prospettiva della psicoanalisi come clinica? Evidentemente non quella di favorire integrazioni di funzioni a livello di un Io concepito come istanza da rafforzare sul piano di un efficientismo funzionale alle aspettative dell'altro immaginario, ma quella di restituire il soggetto alla radicalità della sua divisione soggettiva tra il sapere che suppone di sé e la singolarità della sua verità, rivelandogli che è proprio in questo scarto di verità rispetto al sapere che egli può trovare il suo discorso rivolto all'Altro della domanda e all'Altro del riconoscimento.

In questa prospettiva a modificarsi non sono le funzioni dell'Io, ma le funzioni del sintomo: da ciò che, nel reale, non funziona e fa "difetto", a ciò che invece "funziona" in quanto sostiene lo scarto tra sapere e verità.

La fine dell'analisi è la restituzione di un sintomo - di cui si credeva di doversi liberare - come risorsa, come qualcosa di cui poterne e saperne fare invece buon uso.

L'esperienza dell'analisi comporta dunque la sovversione di ciò che oggi viene considerato il modello di salute, vale a dire che l'analisi vera e propria, a differenza di qualsiasi altra pratica terapeutica, ristabilisce di fatto il principio del diritto al sintomo in un contesto sociale nel quale sempre più se ne pretende invece la radicale e definitiva estirpazione. In questa prospettiva, l'analista, oltre che al compito etico della cura del singolo, è tenuto anche a quello della difesa sociale del sintomo, poiché, se il sintomo è ciò che, facendo tenuta alla divisone del soggetto, dice della singolarità di ciascuno, è anche ciò che garantisce la base democratica di una società civile. 

UN FRAMMENTO DELLA MIA LEZIONE SULL'INCONSCIO AGLI ALLIEVI 

Inconscio transferale e inconscio non transferale.

"...Voi capite che quando il paziente viene da noi ci porta l’inconscio, ma anche se lavorate come cognitivisti vi porta l’inconscio, solo che noi, in quanto analisti, almeno abbiamo una marcia in più: ne sappiamo qualcosa di più dell’Inconscio. Almeno sappiamo che esiste, che vuole esistere anche a dispetto del soggetto.

C’è un inconscio che è corretto chiamare transferale, che è l’inconscio dove il soggetto porta le sue problematiche sul desiderio e vi si interroga: soffro di questo, ho questo sintomo, cosa vorrà dire? Che cosa voglio veramente? Perché mi sembra di desiderare una cosa e poi di volerne un'altra? Ho fatto questo sogno, che vorrà dire? Sono uscito con la mia ragazza e poi abbiamo litigato, perché mai? Nel ritornare a casa ho sbagliato strada, mai successo, come mai proprio questa volta? Ecco, l’inconscio organizzato come un discorso di cui comunque in qualche modo riconosco di esserne il soggetto, anche se non ne so molto, e però ne vorrei sapere, e metto dunque l’analista nella posizione di colui che sa, che mi può dare delle risposte. Quindi è l’inconscio organizzato come un discorso, è l’inconscio che parla, è l’inconscio che produce senso, è l’inconscio che interpreta finanche: sembra che sia l’analista a farlo, ma è l’inconscio che ha già interpretato nel momento stesso in cui noi ci chiediamo: che vuol dire? “Che vuol dire?” è già una interpretazione, in quanto una domanda che contiene una risposta. Una risposta rimossa. E che bisogna tirare fuori.

E poi ci sono soggetti che portano all’analista un’altra cosa, una cosa contraria alla interrogazione soggettiva, invece che un "che vuol dire questo?” portano un “non ne voglio sapere nulla, voglio solo guarire e nel più breve tempo possibile”. E dunque che inconscio è questo? Noi lo chiamiamo “Inconscio non transferale”, un inconscio cioè che non arriva a costituirsi come discorso che può essere trasferito all’Altro. Se l’Inconscio transferale è l’Inconscio che non si sa di sapere, l’Inconscio non transferale è un inconscio di cui si sa di non volerne sapere. L’inconscio "reale", diciamo, per distinguerlo dal primo, cui riserviamo anche il termine di "simbolico" giacché si serve del significante, e un significante rimanda sempre ad un altro significante. L'inconscio non transferale è invece l'inconscio delle pulsioni, che se pur entrano nella catena significante, in questo caso non vi entrano per essere messe in parola, ma per farvi obiezione, in quanto più che un sapere soggettivo si vuole che assicurino un godimento, un godimento che si ha lì dove non si parla, come diciamo noi. 

E noi vorremmo che un soggetto arrivi a poter godere invece lì dove egli parla..."

I DUE TEMPI DEL TRAUMA

A differenza della Psicologia generale e di molti orientamenti psicoterapici, come ad esempio la #psicoterapia sistemico-relazionale o il #cognitivismo, per la #psicoanalisi, tra il #trauma e i suoi effetti non esiste un rapporto di conseguenzialità diretta.

Infatti, nel famoso caso clinico intitolato "L'uomo dei lupi" #Freud ha dimostrato che tra un trauma e il #sintomo che ne può conseguire non vi è in alcun modo, né un rapporto obbligato, né un rapporto lineare di causa-effetto.

Affinché un sintomo si produca, come nel caso del sintomo #fobico, occorrono infatti due tempi più un meccanismo di retroattività, detto, in psicoanalisi, di "après coup".

Primo tempo: un'esperienza traumatica accaduta in un' epoca o in un momento in cui non riesce a provocare nessun effetto (e nessun affetto), se non la sua #rimozione.

Secondo tempo: una successiva esperienza di per sé del tutto normale (per esempio il ritrovarsi in uno spazio chiuso, come è il caso della #claustrofobia, o il dover prendere un aereo, o affrontare un viaggio, eccetera) che però si presta ad essere associata all'esperienza precedente rimossa.

In virtù di tale associazione il soggetto si può ritrovare a #risignificare a posteriori (a partire cioè dall'esperienza attuale di dover prendere ad esempio l'aereo) in senso angoscioso la precedente esperienza (#aprèscoup), legando però (per #falsonesso, dice Freud) l'#angoscia all'esperienza attuale, cioè al prendere l'aereo.

Di qui il carattere #metonimico, cioè di spostamento della #fobia, dovuto al fatto che, affinché si produca un sintomo fobico, non basta l'esperienza traumatica originaria, ma occorre una seconda esperienza a partire dalla quale la precedente viene rielaborata in senso traumatico.

Possiamo dire che ciò che, sul piano della clinica, avviene dopo, in effetti, è già avvenuto prima.


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