DIREZIONE DELLA CURA ©

DIREZIONE DELLA CURA

Quella psicoanalitica è una cura che non si prefigge di riportare chi vi si sottopone ad un modello prestabilito di salute che sia proponibile indistintamente a qualsiasi essere umano. In psicoanalisi non è applicabile il concetto di guarigione come lo conosciamo in medicina, poiché la salute mentale non è una questione che si dipani tra normalità e patologia, né la sofferenza psichica è la manifestazione di una malattia come classicamente intesa, come un “guasto d’organi”, bensì la manifestazione di un disagio individuale che vale solo per ogni singolo soggetto, uno per uno considerato. Per questo, il compito dello psicoanalista non è quello di restituire il paziente alla salute stabilita dalla scienza, ma piuttosto quello di aiutarlo a trovare il proprio modo di stare nella salute. Perché questo fine possa essere raggiunto non è l’analista a dire al paziente come deve fare per stare meglio, ma è il paziente che viene invitato a dire, il più liberamente possibile, di sé e di quello che pensa, permettendo così che sia l’inconscio del paziente a parlare, l’inconsci, che “sa all’insaputa del soggetto” quello che veramente non va e quale sia il modo di stare bene che il soggetto vorrebbe conseguire. Per questo, l’analista è colui che sa mantenere quella posizione etica che gli permetta di limitarsi a dirigere la cura, con fermezza e rigore, e non il paziente.

In questa sezione troverete articoli, scritti. riflessioni su quanto attiene al senso, alla natura, alle modalità attraverso cui si sviluppa il processo psicoanalitico, alle sue indicazioni e alle finalità che si propone, ma anche ai suoi limiti ed alle sue difficoltà





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 I PRINCIPI DELLA PRATICA ANALITICA .

Primo principio: La psicoanalisi è una pratica della parola. I due partner sono l’analista e l’analizzante, riuniti in presenza nella stessa seduta psicoanalitica. L’analizzante parla di quello che lo porta lì, la sua sofferenza, il suo sintomo. Tale sintomo è articolato alla materialità dell’inconscio, fatto di cose dette al soggetto, che gli hanno fatto male, e di cose impossibili da dire che lo fanno soffrire. L’analista punteggia quello che dice l’analizzante e gli permette d’intessere la stoffa del suo inconscio. I poteri del linguaggio e gli effetti di verità che permette, quella che si chiama interpretazione, è il potere stesso dell’inconscio. L’interpretazione si manifesta sia sul lato dell’analizzante sia sul lato dell’analista. Tuttavia, l’uno e l’altro non hanno lo stesso rapporto con tale inconscio dato che uno ha già effettuato l’esperienza, l’altro invece no.

Secondo principio: La seduta psicoanalitica è un luogo in cui possono allentarsi le identificazioni più stabili con cui il soggetto è fissato. Lo psicoanalista autorizza questa distanza nei confronti delle abitudini, delle norme, delle regole a cui l’analizzante si assoggetta al di fuori della seduta. Egli autorizza l’interrogarsi radicale sui fondamenti dell’identità di ognuno. Può temperare la radicalità di tale interrogazione tenendo conto della particolarità clinica del soggetto che si rivolge a lui. Non tiene conto di nient’altro. È ciò che definisce la particolarità del posto dello psicoanalista, colui che sostiene l’interrogarsi, l’apertura, l’enigma nel soggetto che va a trovarlo. Egli non si identifica, quindi, a nessuno dei ruoli che il suo interlocutore vuole fargli giocare, né a nessun magistero o ideale già presente nella civiltà. In un certo senso, l’analista è colui che non può essere assegnato a nessun altro posto che non sia quello della questione sul desiderio.

Terzo principio: L’analizzante si rivolge all’analista. Gli attribuisce dei sentimenti, delle credenze, delle attese in reazione a quanto egli dice e desidera agire sulle credenze e sulle attese che egli anticipa. La decifrazione del senso, negli scambi tra analizzante e analista, non è l’unica cosa in gioco. Vi è ciò a cui mira colui che dice. Si tratta di recuperare qualcosa di perduto presso tale interlocutore. Questo recupero d’oggetto dà la chiave del mito freudiano della pulsione. Essa fonda il transfert che annoda i due partner. La formula di Lacan secondo cui il soggetto riceve dall’Altro il suo proprio messaggio in forma invertita include sia il deciframento sia la volontà di agire su colui a cui ci si rivolge. In ultima istanza, quando l’analizzante parla, egli vuole, al di là del senso di quello che dice, raggiungere nell’Altro il partner delle sue attese, delle sue credenze e dei suoi desideri. Ciò a cui mira è il partner del suo fantasma. Lo psicoanalista, illuminato dall’esperienza sulla natura del proprio fantasma, ne tiene conto. Si guarda dall’agire in nome di quest’ultimo.

Quarto principio: Il legame del transfert presuppone un luogo, il “luogo dell’Altro”, come dice Lacan, che non è regolato da nessun altro particolare. È quello in cui l’inconscio può manifestarsi nella più grande libertà di dire e, dunque, di provarne gli inganni e le difficoltà. È pure il luogo in cui le figure del partner del fantasma possono dispiegarsi nei loro giochi di specchi più complessi. Per questo motivo la seduta psicoanalitica non sopporta il terzo e il suo sguardo esterno al processo stesso che è in gioco. Il terzo si riduce a questo luogo dell’Altro. Questo principio esclude, dunque, l’intervento dei terzi autoritari che vogliono assegnare un posto a ciascuno come pure uno scopo già stabilito al trattamento psicoanalitico. Il terzo valutatore si iscrive nella serie dei terzi, la cui autorità lo afferma dall’esterno di quello che è in gioco tra l’analizzante, l’analista e l’inconscio.

Quinto principio: Non esiste cura standard, non esiste un protocollo generale che governerebbe la seduta e la cura psicoanalitica. Freud ha preso la metafora degli scacchi per indicare che vi erano solo delle regole o dei tipi di inizio o di fine di partita. Certo, da Freud in poi, gli algoritmi che formalizzano gli scacchi hanno aumentato la loro potenza. Legati alla potenza di calcolo del computer essi permettono a una macchina di battere un giocatore umano. Questo non cambia il fatto che la psicoanalisi, contrariamente agli scacchi, non può presentarsi sotto forma algoritmica. Lo vediamo per Freud stesso, che ha trasmesso la psicoanalisi con l’ausilio di casi particolari: l’Uomo dei topi, Dora, il piccolo Hans, ecc. A partire dall’Uomo dei lupi, il racconto della cura è entrato in crisi. Freud non poteva più far tenere, nell’unità di un racconto, la complessità dei processi in gioco. Lungi dal potersi ridurre a un protocollo tecnico, l’esperienza della psicoanalisi non ha che una regolarità: quella dell’originalità dello scenario tramite il quale si manifesta la singolarità soggettiva. La psicoanalisi non è, dunque, una tecnica ma un discorso che incoraggia ciascuno a produrre la propria singolarità, la propria eccezione.

Sesto principio: La durata della cura e lo svolgimento delle sedute non possono essere standardizzate. Le cure di Freud hanno avuto delle durate molto variabili. Ci sono state cure di una seduta, come la psicoanalisi di Gustav Mahler. Ci sono pure state cure di quattro mesi, come quella del piccolo Hans, di un anno, come quella dell’Uomo dei topi, di diversi anni, come quella dell’Uomo dei lupi. Da allora lo scarto e la diversificazione non hanno smesso di accrescersi. Inoltre, l’applicazione della psicoanalisi, al di là dello studio, nei dispositivi in cui si distribuiscono cure, ha contribuito alla varietà delle durate della cura psicoanalitica. La varietà dei casi clinici e delle età della vita a cui la psicoanalisi è stata applicata permette di ritenere che la durata della cura ora sia definita al massimo come “su misura”. Una cura è condotta sino a che l’analizzante sia sufficientemente soddisfatto di ciò di cui ha fatto l’esperienza per lasciare l’analista. Ciò che si ha di mira non è l’applicazione di una norma, ma un accordo del soggetto con se stesso.

Settimo principio: La psicoanalisi non può determinare ciò che ha di mira e la sua fine in termini di adattamento della singolarità del soggetto a delle norme, a delle regole, a delle determinazioni standard della realtà. La scoperta della psicoanalisi è anzitutto quella dell’impotenza del soggetto a raggiungere la piena soddisfazione sessuale. Tale impotenza è designata con il termine di castrazione. Al di là di questo, la psicoanalisi, con Lacan, ha formulato l’impossibilità che vi sia una norma del rapporto tra i sessi. Se non vi è soddisfazione piena e se non vi è una norma, a ciascuno non rimane che inventare una soluzione particolare, che si fonda sul proprio sintomo. La soluzione di ciascuno può essere più o meno tipica, più o meno fondata sulla tradizione e sulle regole comuni. Essa può, invece, voler rientrare nell’ambito della rottura o di una certa clandestinità. Ciò non toglie che, nel suo fondo, la relazione tra i sessi non ha una soluzione che possa essere “per tutti”. In questo senso, essa resta marcata dal sigillo dell’incurabile e sempre vi sarà difetto. Il sesso, nell’essere parlante, rientra nel “non tutto”.

Ottavo principio: La formazione dello psicoanalista non può essere ridotta alle norme di formazione dell’università o delle valutazioni delle acquisizioni della pratica. La formazione analitica, da quando è stata stabilita come discorso, si fonda su di un tripode: dei seminari di formazione teorica (para-universitari), il proseguimento da parte del candidato psicoanalista di una psicoanalisi sino al punto ultimo (da cui gli effetti di formazione), la trasmissione pragmatica della pratica nelle supervisioni (conversazione tra pari sulla pratica). Freud ha ritenuto, per un certo tempo, che fosse possibile determinare una identità dello psicoanalista. Il successo stesso della psicoanalisi, la sua internazionalizzazione, le diverse generazioni che si sono succedute da un secolo a questa parte hanno mostrato che questa definizione di una identità dello psicoanalista era un’illusione. La definizione dello psicoanalista include la variazione di tale identità. È questa stessa variazione. La definizione dello psicoanalista non è un ideale, essa include la storia della psicoanalisi stessa, e di quello che è stato chiamato psicoanalista in contesti di discorso distinti.

La nomina di psicoanalista include delle componenti contraddittorie. Ci vuole una formazione accademica, universitaria o equivalente, che dipende dalla generale collazione dei gradi. Ci vuole un’esperienza clinica che si trasmette nella sua particolarità sotto il controllo di pari. Ci vuole l’esperienza radicalmente singolare della cura. I livelli del generale, del particolare, del singolare sono eterogenei. La storia del movimento psicoanalitico è quella delle divergenze e delle interpretazioni di tale eterogeneità. Essa fa parte, pure lei, della grande Conversazione della psicoanalisi che permette di dire chi è psicoanalista. Questo dire si realizza tramite delle procedure dentro delle comunità che sono le istituzioni psicoanalitiche. In questo senso, lo psicoanalista non è solo, egli dipende, come il motto di spirito, da un Altro che lo riconosca. Questo Altro non può ridursi a un Altro normato, autoritario, regolamentare, standardizzato.

Lo psicoanalista è colui che afferma di aver ottenuto dall’esperienza ciò che poteva attendersene e, dunque, che afferma di aver superato una “passe”, così come l’ha chiamata Lacan. Vi testimonia del superamento delle sue impasse. L’interlocuzione tramite cui egli vuole ottenere un accordo su questa traversata si fa dentro dei dispositivi istituzionali. Più profondamente, essa si iscrive nella grande Conversazione della psicoanalisi con la civiltà. Lo psicoanalista non è autistico. Non smette di rivolgersi all’interlocutore benevolo, all’opinione illuminata, che egli desidera commuovere e toccare a favore della causa psicoanalitica.


QUANDO INIZIA UN'ANALISI?

Possiamo dire che ogni analisi inizia sempre da un inciampo nella relazione di parola che si stabilisce tra colui che parla (analizzante) e colui che ascolta (psicoanalista), un inciampo dovuto all’incidenza di quel particolare singolare dell'analizzante nello scenario del discorso, e che fa da obiezione a qualsiasi suggestione di relazione intersoggettiva che si possa immaginare funzionale ad una cura basata sulla parola.

Questa incidenza fu scoperta da Freud come interruzione del discorso, come interruzione del fluire delle libere associazioni, interruzione che egli chiamò transfert, poiché pensò che fosse dovuta alla ripetizione del passato del paziente trasferito sulla persona dell'analista: il passato più che raccontarsi si ripete nel presente e investe lo psicoanalista, ritenne allora Freud.

Lacan si rende conto, invece, che l'interruzione del discorso del paziente in analisi, questo inciampo della parola ("ora non mi viene più niente in mente"), il transfert, dunque, non fosse dovuto al disturbo del discorso del paziente da parte del suo passato che si ripete nel presente, ma al disturbo della parola da parte dell'inconscio. 

Il transfert è l'incidenza dell'inconscio come impossibile a dirsi e dunque come ciò che fa obiezione al dire.

È da qui allora, da questa incidenza, da questo inciampo del discorso, dal transfert, che comincia un’analisi in quanto lavoro dell'inconscio: dal transfert che, piuttosto che di ripetizione, è invece di interruzione del discorso, di interruzione della "sfilata dei soliti significanti", per aprire ad altro, all'inconscio in quanto "altra scena", nella quale è "altro" a dire e l'analista è destituito come soggetto e ridotto a mero significante, ad "un significante qualunque" - dice Lacan - lasciandosi solo supporre, supporre come soggetto di sapere.

Qual è la portata clinica di questo aspetto? Che in ogni psicoterapia non può non darsi, prima o poi, che il discorso di parola si interrompa per la necessità dell'inconscio di farvi il suo ingresso e per la necessità che la relazione di suggestione ceda a quella di transfert, producendosi qualcosa di psicoanalitico che può essere accolto come tale solo se dall'altra parte vi è uno psicoanalista.

Se uno psicoterapeuta è anche uno psicoanalista è meglio.


#egidiotommasoerricopsicoanalistaasalerno #transfert #catenasignificante #soggettosuppostosapere #freud #lacan #psicoanalisilacaniana #suggestione #psicoanalisiepsicoterapia


LA DIREZIONE DELLA CURA

L'analista ha il dovere etico di dirigere la cura. La cura, non il paziente, raccomanda Lacan? Cosa vuol dire? Vuol dire precisamente che l'analisi si propone di curare l'inconscio, non di sottomettervisi. Il che significa che l'analista, se da una parte deve badare a non far da ostacolo a che l'inconscio si manifesti attraverso la parola - e solo attraverso la parola - dall'altra deve stare attento a che non sia l'inconscio ad assumere la direzione della cura, né l'inconscio del paziente, né tanto meno il proprio.

Per questo le analisi basate troppo sull'empatia e sul controtransfert possono essere molto pericolose: si corre il rischio di non sapere più chi ne sia al comando e dove vadano a finire



QUANDO INIZIA UN'ANALISI?

Possiamo dire che ogni analisi inizia sempre da un inciampo nella relazione di parola che si stabilisce tra colui che parla (analizzante) e colui che ascolta (psicoanalista), un inciampo dovuto all’incidenza di quel particolare singolare dell'analizzante nello scenario del discorso, e che fa da obiezione a qualsiasi suggestione di relazione intersoggettiva che si possa immaginare funzionale ad una cura basata sulla parola.

Questa incidenza fu scoperta da Freud come interruzione del discorso, come interruzione del fluire delle libere associazioni, interruzione che egli chiamò transfert, poiché pensò che fosse dovuta alla ripetizione del passato del paziente trasferito sulla persona dell'analista: il passato più che raccontarsi si ripete nel presente e investe lo psicoanalista, ritenne allora Freud.

Lacan si rende conto, invece, che l'interruzione del discorso del paziente in analisi, questo inciampo della parola ("ora non mi viene più niente in mente"), il transfert, dunque, non fosse dovuto al disturbo del discorso del paziente da parte del suo passato che si ripete nel presente, ma al disturbo della parola da parte dell'inconscio. 

Il transfert è l'incidenza dell'inconscio come impossibile a dirsi e dunque come ciò che fa obiezione al dire.

È da qui allora, da questa incidenza, da questo inciampo del discorso, dal transfert, che comincia un’analisi in quanto lavoro dell'inconscio: dal transfert che, piuttosto che di ripetizione, è invece di interruzione del discorso, di interruzione della "sfilata dei soliti significanti", per aprire ad altro, all'inconscio in quanto "altra scena", nella quale è "altro" a dire e l'analista è destituito come soggetto e ridotto a mero significante, ad "un significante qualunque" - dice Lacan - lasciandosi solo supporre, supporre come soggetto di sapere.

Qual è la portata clinica di questo aspetto? Che in ogni psicoterapia non può non darsi, prima o poi, che il discorso di parola si interrompa per la necessità dell'inconscio di farvi il suo ingresso e per la necessità che la relazione di suggestione ceda a quella di transfert, producendosi qualcosa di psicoanalitico che può essere accolto come tale solo se dall'altra parte vi è uno psicoanalista.

Se uno psicoterapeuta è anche uno psicoanalista è meglio.


#egidiotommasoerricopsicoanalistaasalerno #transfert #catenasignificante #soggettosuppostosapere #freud #lacan #psicoanalisilacaniana #suggestione #psicoanalisiepsicoterapia


LA PSICOANALISI E' INTRASMISSIBILE

Un analista, nella propria pratica, non dovrebbe rifarsi in alcun modo ai suoi riferimenti teorici: agli Autori che predilige, ai suoi maestri, e ancor meno al proprio analista.

Piuttosto, è proprio da questi che egli dovrebbe sapersi distaccare, soprattutto nel momento in cui si assume la responsabilità del proprio atto analitico.

L'analista, infatti, non potrebbe correttamente implicarsi nel transfert del proprio analizzante se non fosse in grado di interporre una faglia tra sé e il sapere, in quanto è solo in questa faglia, in questo spazio cavo, in questo vuoto di sapere che lo psicoanalista può incontrare un paziente e mettersi in ascolto del suo inconscio.

E' solo in questo spazio vuoto che l'inconscio può accadere e prodursi qualcosa di psicoanalitico, poiché lo psicoanalista - come ha ricordato Lacan - si costituisce a partire dal discorso dell'isterica e non dal discorso del Padrone o dal discorso dell'Università, vale a dire dal luogo di chi soffre e dice della propria sofferenza attraverso il proprio sintomo, e non dai luoghi del Potere o del Sapere.

Lo psicoanalista non può avere un Padrone cui sottomettersi, né identificarsi con un Sapere prestabilito: questo è il senso della controversa frase sulla formazione degli psicoanalisti pronunciata da Lacan: "lo psicoanalista non si autorizza che da sé stesso".

Ed è per questo che Lacan arriverà a convincersi, e ad avvertire gli psicoanalisti, che "la psicanalisi è intrasmissibile. È abbastanza scocciante. È abbastanza scocciante che ciascun psicanalista sia forzato - perché bisogna ben dire che vi sia forzato - a reinventare la psicanalisi."



COME INIZIA UN'ANALISI?

Un'analisi può prendere inizio solo a partire da quella che Lacan definisce la "rettifica del soggetto" sul proprio sintomo da parte dell'analista, e che può considerarsi il primo atto analitico, quello che fonda la possibilità della domanda da parte dell'analizzante.

Infatti, non può esserci nessuna domanda di analisi finché il sintomo - di cui il paziente si serve per rivolgersi ad un dottore -  sia avvertito, come succede abitualmente - e come l'approccio psichiatrico, o fenomenologico, o cognitivo, inducono a credere - in termini di qualcosa da placare, da sedare, senza che ci si domandi perché ci sia. E se non c'è domanda di analisi, non ci può essere accesso alla cura.

Per questo, l'analista deve prima di tutto correggere, rettificare, la posizione del paziente rispetto al proprio sintomo: rettificare significa far notare al paziente che non è possibile placare qualcosa che egli stesso produce e senza sapere perché lo produca.

Rettificare il soggetto sul proprio sintomo significa aprire la via affinché il paziente si disponga - come dice Lacan - nella "posizione dell'isterica": da "come posso eliminare questo?" a "cosa vuol dire questo?"

Solo in questo modo può prendere avvio, e procedere, un'analisi, perché curarsi mediante la psicoanalisi significa fare luce su quel vuoto di sapere da cui il paziente in effetti parla, e soffre, e che Freud ha chiamato inconscio.

Una cura psicoanalitica non ha di conseguenza niente a che vedere con il vasto capitolo delle cure intese come pratiche della consolazione, della rassicurazione, del conforto, o che si avvalgano delle "tecniche", o delle "strategie" o delle escogitazioni empatiche, tutte posizioni o manovre, che - per la verità - non fanno altro, alla lunga, che fare obiezione al poterne saper qualcosa di più su se stessi al fine di potersela cavare un po' meglio, con sé stessi, con gli altri e col proprio sintomo.

Anche perché tali pratiche terapeutiche non sono destinate a durare a lungo, in quanto, come Lacan ci fa notare, è l'emergenza ineludibile del transfert - vale a dire il desiderio inconscio del paziente del paziente - a farvi d'altra parte, esso, obiezione.

In quanto dottori, basta essere sufficientemente umili per rendersi conto che, per poter consentire a qualcuno un po' di salute mentale in più, non può esservi altra via se non quella che passi per un'interrogazione soggettiva del paziente , e sull'ascolto di quello che ha da dire


ACTING OUT

Diversamente da quello che si ritiene, in quello che nella nostra pratica chiamiamo acting out, il soggetto non è fuori del proprio inconscio, essendone piuttosto completamente avvolto, come trapassato.

È l’inconscio a dominare il campo essendo nel pieno del suo lavoro come apparato di godimento.

L’acting infatti sta al posto della parola, di una parola che non può essere detta perché tagliata fuori dalla possibilità di essere rappresentata nel simbolico, di una parola che si sottrae al significante per diventare puro atto di godimento. 

L'acting testimonia, nel soggetto, della sconnessione tra significante e godimento: si tratta di una vera e propria "catastrofe del godimento" che il soggetto non sa più dove collocare.

Tuttavia, della dimensione della parola, l'acting mantiene il fatto di essere rivolta all’Altro, un Altro che è convocato sul piano immaginario e non su quello simbolico, un Altro che viene come immobilizzato dall’agito e spinto a rispondere allo stesso modo. 

Non si tratta di ordire un discorso rivolto all’Altro riconosciuto come chi è nel diritto di dare la sua risposta, ma di mettere in campo una scena nella quale l’Altro, ridotto ad "altro" speculare, è chiamato a farvi il suo ingresso e a “interpretare” un ruolo che è di azione e non di parola. 

L’acting è mosso dalla impossibilità per il soggetto di tollerare lo scarto, la beanza, la rifrazione tra il desiderio e la domanda: il desiderio non può farsi domanda perché nel farsi domanda non manterrebbe più il suo statuto originario e lascerebbe dietro di sé un resto. 

E’ questo resto che il soggetto non tollera e che funge da motore dell’acting: si tratta di quello che Lacan chiama oggetto piccolo a, oggetto di "plus godere", che il soggetto dell'acting non tollera nella sua dimensione di causa, per collocarlo come reale "fuori senso" nell'Altro, cui lo destina attraverso un agito non interpretabile, ma che comunque esige una risposta. 

E' questo resto, questa beanza, questo buco che l’Altro è chiamato a ricucire, a orlare, a sanare. Ecco perché l’acting è sempre convocazione dell’Altro, non sul piano della parola, ma su quello dell’agito stesso. 

In analisi l’acting rivela un “fuori transfert”, un tentativo di scardinare l’analista dal registro del simbolico per “invitarlo” a rispondere su quello dell’immaginario. 

La risposta dell’analista non può essere allora una risposta di “parola”, nel senso che non può essere quella di una interpretazione classica “di contenuto”, perché l'analista viene messo “fuori transfert”, collocato com’è sul piano dell’immaginario e non più riconosciuto su quello del simbolico, l’unico sul quale può costituirsi il transfert e dal quale può giungere l’interpretazione psicoanalitica che abbia un effetto di senso. 

Ma quella dell’analista non può essere neanche una interpretazione che si richiami alla realtà dell’agito perché sarebbe, come dice Lacan, “un’azione di psicoterapia primaria” e non un atto psicoanalitico. 

La sola risposta possibile sarebbe allora quella dell' “atto psicoanalitico”, vale a dire quella in grado di cogliere proprio quel resto - quel reale - che il paziente non può rappresentare, nel senso che, come dice Lacan, se il soggetto trasforma l’atto in una parola, l’analista deve trasformare la parola in un atto. 

Il che significa farsi trovare - e non arretrare né contro agire - sul luogo della scena dell’acting.



L'ACTING IN ANALISI Nell’acting il soggetto è...

 Nell’acting il soggetto è completamente avvolto dall’inconscio. 

 È l’inconscio a dominare il campo ed è nel pieno del suo lavoro, del suo lavoro come apparato di godimento: non si tratta della risposta nevrotica dell’inconscio, ma di una risposta che si situa nell’ambito delle perversioni e più di presso alla psicosi. 


 L’acting sta al posto della parola, di una parola che non può essere detta perché tagliata fuori dalla possibilità di essere rappresentata nel simbolico, di essere significantizzata, di una parola che diventa invece puro atto, ma che della dimensione della parola mantiene però il fatto che essa è comunque rivolta all’Altro, un Altro che è convocato però sul piano dell'Immaginario -sul piano dell'Io, o, come direbbe Czermark, sul piano "moique" e non su quello del Simbolico- un altro dunque con la a minuscola e che viene perciò come immobilizzato dall’acting che lo investe e spinto a rispondere allo stesso modo. 


 Non si tratta dunque di ordire un discorso rivolto all’Altro riconosciuto come chi è nel diritto di dare la sua risposta, ma di mettere in campo una scena nella quale l’Altro da sé è chiamato a farvi il suo ingresso come altro di sé, e a “interpretare” un ruolo che è di azione e non di parola. 


 L’acting è mosso dalla impossibilità per il soggetto di tollerare lo scarto, la beanza, la rifrazione tra il desiderio e la domanda: il desiderio non può farsi domanda perché nel farsi domanda non può mantenere il suo statuto originario, ma diventa inevitabilmente qualcos’altro che lascia dietro di sé un resto. 


 E’ questo resto che il soggetto non tollera e che funge da motore dell’acting. In altri termini è il significante della castrazione che viene qui a non poter essere riconosciuto e rimosso. Esso può essere solo precluso, rifiutato radicalmente, denegato e scisso per essere scorporato nell’atto, nel sintomo-acting, non potendo essere infilato nella catena significante. 


 Non è che nell'acting ci sia la negazione della castrazione, come è tipico nella soluzione nevrotica -la rimozione, c’è piuttosto il suo rifiuto radicale, un diniego: semplicemente “il soggetto non ne volle sapere” (Freud). 


 In altre parola l'acting è l'effetto della impossibilità a riconoscere, e tollerare, la propria "mancanza-ad-essere": il soggetto, attraverso l'acting vuole infatti dimostrare che non esiste alcuna mancanza, che “non vi è nessun non”, tant'è che la psichiatria vede nell'acting il segno di una "incapacità a tollerare la frustrazione".


 In analisi, laddove avvenga un acting, lì corrisponde dunque, nel Reale, uno strappo, un buco, che è precluso e rigettato nel reale attraverso l'acting stesso, e che l’Altro è chiamato a ricucire, a orlare, a sanare. Ecco perché l’acting in analisi è sempre convocazione dell’Altro, ma non sul piano della parola, piuttosto su quello dell’atto stesso. 


 In analisi l’acting rivela dunque un “fuori transfert”: è "analisi senza transfert e transfert senza analisi" dirà Lacan, un tentativo di scardinare l’analista dal registro del Simbolico per “invitarlo” a rispondere invece su quello dell’Immaginario. 


 La risposta dell’analista non può essere allora una risposta di “parola”, nel senso che non può essere quella di una interpretazione classica “di contenuto”, perché egli si trova “fuori transfert”, collocato com’è sul piano dell’Immaginario e non più riconosciuto su quello del Simbolico, l’unico sul quale può costituirsi il transfert e dal quale può giungere l’interpretazione psicoanalitica che abbia un effetto di senso. Ma quella dell’analista non può essere neanche una interpretazione che si richiami alla realtà dell’atto perché sarebbe, come dice Lacan, “un’azione di psicoterapia primaria” e non un atto psicoanalitico.


 La risposta dell’analista deve essere allora quella dell’ “atto psicoanalitico” che deve poter cogliere proprio quel resto che il paziente non può rappresentare, nel senso che, come dice Lacan, se il soggetto trasforma l’atto in una parola, l’analista deve trasformare la parola in un atto. Il che significa farsi trovare e non arretrare, né contro agire, sul luogo stesso della scena dell’acting.


E' PROPRIO IN UN MOMENTO COME QUESTO CHE SERVE UN "ATTO ANALITICO"

"L'atto analitico dipende dal desiderio dell'analista. [...] Il desiderio dell'analista è essenzialmente la sospensione di ogni domanda da parte dell'analista, la sospensione di ogni domanda d'essere: non vi si chiede di essere intelligenti, non vi si chiede di essere veridici, non vi si chiede di essere buoni, non vi si chiede di essere decenti, vi si chiede solo di parlare di ciò che vi passa per la testa e di dire la cosa più superficiale che viene in mente. Il desiderio dell'analista non è quello di rendervi conformi, di farvi del bene o di guarirvi. Il desiderio dell'analista è quello di ottenere il più singolare di ciò che fa il vostro essere e che voi stessi siate capaci di circoscrivere, di isolare ciò che vi differenzia come tale, di assumerlo, di dire: «Io sono questo, questo che non è buono, che non è come gli altri, che io non approvo, ma è questo«»". (J.-A. Miller, La Psicoanalisi n. 58, p 156-157)

Per questo, è proprio in un momento come questo, in cui, se da una parte è necessario ascoltare e mettere in pratica quello che ci chiedono di fare, tutti allo stesso modo, per il bene di tutti, dall'altra serve ancor di più quell'atto analitico che permette a ciascuno di noi di ritrovare comunque, in se stesso, la capacità, la possibilità di "circoscrivere, di isolare" quel singolare che nonostante tutto ci appartiene e ci differenzia.



LA SOVVERSIONE DELLA GUARIGIONE

Una psicoanalisi procede a rovescio di qualsiasi discorso prestabilito. 

Vale a dire che la psicoanalisi opera nel senso contrario di ogni psicoterapia conosciuta: un'analisi non è qualcosa che abbia a che fare con l’idea che si tratti di portare una persona ad un certo modo di vivere riconosciuto in anticipo come quello giusto, quello "sano", il modo cioè della guarigione verso un modello di salute prestabilito e applicabile allo stesso modo a tutti, ma si tratta piuttosto di arrivare a distaccarsi da ogni ideale di salute, per trovare, ciascuno, la propria personale guarigione, la propria "salute", come ciò che appartiene all'ordine del reale soggettivo, singolare, e non a quello dell'ideale.

Per questo, Il paziente in analisi, l'analizzante, può fare esperienza di un vero e proprio atto sovversivo: di liberazione dal discorso dell’Altro, della scienza, dei "buoni" modelli e da qualsiasi concezione di "bene" prestabilito.


NON VI PUO' ESSERE GUARIGIONE SENZA UNA PERDITA

Perché, pur non desiderando altro, pur sottoponendosi ad ogni tipo di cura o perfino affrontando un'analisi, è così difficile "guarire" quando si soffre nella propria psiche? Perché è così difficile abbandonare il proprio sintomo?

Innanzitutto perché il sintomo, pur essendo ciò che ci fa soffrire e ciò che di conseguenza ci spinge a chiedere un aiuto o persino ad intraprendere un'analisi, ci procura anche, senza che noi lo sappiamo, una certa quota di godimento, un godimento segreto, perché inconscio, e nascosto in quella sofferenza che invece non è affatto inconscia, e della quale vorremmo liberarci, senza sapere che però è il godimento che vi si accompagna ciò a cui non siamo disposti a rinunciare.

E dunque, ritrovare la propria salute mentale non è solo una questione di perdita di sofferenza e di guadagno di salute, cui tutti sarebbero disposti, ma soprattutto qualcosa che passa attraverso la disponibilità ad una rinuncia al godimento, che è una rinuncia molto difficile e a cui molto difficilmente si è disposti.

Per questo, le terapie molto spesso falliscono, e molte volte anche le analisi. E tuttavia, in molti casi, è proprio un'analisi che può, seriamente, aiutare a questa rinuncia di godimento e dunque a permettere, ad un paziente che vi si sia affidato, di ritrovare la propria salute. Perché? In che modo opera un'analisi per consentire un tale cambiamento, vale a dire quella rinuncia al godimento che permette di abbandonare la ripetizione senza fine di quel sintomo che tanto fa soffrire?

 Lacan aveva capito che l'amore è l'unica condizione che permette al desiderio di acconsentire al godimento, laddove in genere il godimento è ciò che al desiderio invece si oppone. In altri termini, il godimento, che è autoerotico, e dunque condizione del narcisismo, non vuole tanto saperne di lasciare il passo al desiderio, che invece, essendo sempre rivolto all'altro, è la condizione alloerotica per eccellenza. Solo se ci innamoriamo - se dunque siamo attraversati dal desiderio per la persona amata - possiamo essere disposti a rinunciare al nostro godimento autoerotico per lasciarci andare all'amore, e ritrovare nell'amore un godimento altro, alloerotico, che è di un ordine superiore a quello autoerotico. Anche Freud lo aveva capito quando dirà che è la paura di perdere la persona amata che consente la rinuncia al proprio narcisismo originario. 

L'analisi sfrutta proprio l'amore come quella condizione che permette ad un paziente di rinunciare al godimento autoerotico del proprio sintomo, per ottenere quell'apertura alloerotica al mondo, attraverso cui potrà ritrovare la propria salute, e dunque un godimento altro e di un ordine ben superiore a quello autoerotico del proprio sintomo. Ma l'amore che sfrutta l'analisi non è l'amore che avviene tra un uomo e una donna, che anzi questo tipo di amore è interdetto in analisi, bensì quello che Freud chiama "amore di transfert", e che è reso possibile proprio in conseguenza della interdizione dell'amore erotico che possa consumarsi nella realtà tra paziente e analista: l'analisi sfrutta il transfert - che è amore vero e proprio anche se spostato su un piano solo simbolico - affinché - nel transfert - quello che Lacan chiama il "desiderio dell'analista" potrà sostenere il paziente nella rinuncia al godimento autoerotico del proprio sintomo per consentirgli in cambio quel godimento alloerotico, che è alla base, come abbiamo visto, della rinuncia al sintomo, e dunque della salute. 

Ogni cambiamento dunque che possa comportare in prospettiva un guadagno di "salute" comporta sempre una quota di perdita: una perdita di godimento. 

Per ritrovare la propria salute mentale, il proprio benessere psichico, occorre insomma pagare il prezzo di una perdita di godimento. Godimento che però lo si ritroverà poi, in un secondo momento, e di un altro ordine, dal lato della salute e non più da quello del sintomo.

E' questo che permette, come abbiamo visto, un'analisi vera e propria, è questo che promette un'analisi.

Perché ogni cambiamento in meglio, ogni guadagno, è sottoposto a questa legge, alla "legge della castrazione" che dice: non c'è guadagno senza una perdita che l'abbia preceduto



PSICOANALISI E GUARIGIONE

Perché in psicoanalisi, per quanto riguarda il suo esito, non si può parlare di guarigione, anche se essa può esser comunque considerata una cura vera e propria? 

Perché, mentre attraverso qualsiasi altra terapia si spera che, dopo, tutto ritornerà come prima di ammalarsi - è questo il concetto di guarigione - attraverso una terapia psicoanalitica invece, dopo, niente sarà più come prima: accadrà cioè sempre qualcosa di nuovo, e di inedito.

Per questo, mentre tutte le altre terapie sussistono già prestabilite sulla base del risultato che devono conseguire, la guarigione appunto, la psicoanalisi non può prestabilire in partenza alcun obiettivo, se non sapere che dopo non sarà come prima.

L'obiettivo di un'analisi non si può sapere in anticipo: questo si arrivera' a conoscere solo dopo che essa sarà giunta alla sua conclusione.


PER "GUARIRE" OCCORRE PERDERE QUALCOSA

Perché, pur non desiderando altro, pur sottoponendosi ad ogni tipo di cura o perfino affrontando un'analisi, è così difficile "guarire" quando si soffre nella propria psiche? Perché è così difficile abbandonare il proprio sintomo? 

Perché ottenere un po' di salute mentale non è solo qualcosa che comporta un guadagno, ma è qualcosa che comporta prima di tutto una perdita. 

Ogni cambiamento che possa comportare in prospettiva un guadagno di "salute" comporta sempre una quota di perdita: una perdita di godimento. 

Per ritrovare la propria salute mentale, il proprio benessere psichico, occorre dunque pagare il prezzo di una perdita di godimento. Godimento che però lo si ritroverà poi, in un secondo momento, e di un altro ordine, dal lato della salute e non più da quello della malattia.

E' questo che richiede un'analisi, è questo che promette un'analisi.

Ogni cambiamento in meglio, ogni guadagno, è sottoposto a questa legge, alla "legge della castrazione" che dice: non c'è guadagno senza una perdita che l'abbia preceduto.



GUARIGIONE E SALUTE

I concetti di guarigione e salute non necessariamente coincidono, dal momento che l'una non garantisce l'altra: si può guarire da una malattia senza per questo riacquistare obbligatoriamente la propria salute e, d'altra parte, ci si può sentire o anche stare in "buona salute", pur con qualche malattia.

Invece, come vediamo, oggi la medicina tende a confondere i due concetti e a lasciar credere che essi siano tra di loro collegati, e che dunque la guarigione da una malattia serva alla salute.

Questo falso collegamento lo si coglie soprattutto nella salute mentale, dove - contrariamente a quello che la psichiatria vuol far credere e come la psicoanalisi invece dimostra - la salute mentale che si può ottenere non ha niente a che vedere con la "guarigione" da un sintomo.


L'EMPATIA DELLA PUTTANA

"L’analista è, e deve essere, un operatore freddo che osserva e ascolta i disordini, le sofferenze e la mancanza a essere del paziente. Il dovere dell’analista, nel momento in cui il paziente dispiega le sue emozioni, è di abituarsi al distacco, a una certa freddezza. È un dovere, proprio della posizione della puttana, al punto che Lacan ha chiamato “passe” l’uscita dall’analisi, termine che in francese indica l’incontro con una prostituta (e il primo significato cui la gente pensa, quando si pronuncia questa parola). La “passe” è anche un termine utilizzato in Marina per indicare il passaggio attraverso cui si può uscire. In ogni caso, la posizione dell’analista comporta la degradazione." (J.A. Miller). 

Vorrei aggiungere, anzi sintetizzare, per i teorici della cosiddetta empatia, che questa è l'empatia degli analista: l'empatia della puttana.



IL LUOGO DELLA SEDUTA PSICOANALITICA

Per uno psicoanalista, quello della seduta non è il luogo della verifica di quanto sia stato un bravo freudiano o un bravo lacaniano, di quanto la sua azione sia stata correttamente freudiana o correttamente lacaniana, ma unicamente il luogo della risposta alla domanda del proprio paziente


IL SAPERE DELLO PSICOANALISTA

Diversamente dagli altri specialisti della salute, lo psicoanalista rovescia qualsiasi paradigma di sapere che l'Università stabilisce sulla salute mentale, e così spogliato si appresta ad aprirsi a quel sapere che proviene dal paziente e dal suo inconscio. 

Infatti lo psicoanalista diventa tale attraverso la sua analisi personale e non attraverso i suoi corsi universitari. 

Insomma l'analista opera nella sovversione di ogni sapere prestabilito, anche di quello cui è giunto attraverso l'ascolto di altri pazienti o dello stesso paziente nelle sedute precedenti. Si destruttura continuamente del suo stesso sapere.



L'ATTENZIONE FLUTTUANTE DELLO PSICOANALISTA

Lacan raccomandava agli analisti di non sforzarsi troppo di comprendere: "si comprende solo quello che già si ha in mente", diceva, e invece l'analista deve permettere che lo raggiunga quello che, dell'analizzante, non si è già inserito nella sua mente.

Del resto se, come ci ha consigliato Freud, noi chiediamo al paziente di parlare mediante le libere associazioni, in effetti lo stiamo invitando a parlare senza prima comprendere quello che dirà poi e perché. In fondo l'analisi è l'unico luogo dove si è autorizzati a parlare senza prima pensare a quello che si sta per dire.

Di conseguenza, il nostro ascolto deve analogamente liberarsi dall'idea che possa portarci a comprendere subito qualcosa di quello che il paziente ci sta dicendo. Dobbiamo abbandonare quest'idea del comprendere e lasciarci andare ad altro: farci sorprendere da un pensiero, da un'intuizione, da un lampo e, poi, chiedere di nuovo al paziente di dire. L'analista non deve dire, deve dire il paziente, al limite l'analista mette la punteggiatura.

E' precisamente questa la modalità di ascolto che Freud indicò come l' "attenzione fluttuante" dell'analista al lavoro.


L'AMORE DELL'ANALISTA

L'analista, pur credendo nella forza positiva dell'amore, sa però che se se ne servisse - nel suo lavoro - in sostituzione dell'ascolto che deve al proprio paziente, non potrebbe curarlo.

Per aiutare chicchessia a ritrovare - attraverso l'analisi - la propria capacità di amare, è proprio dell'amore che un analista sa di non doversi servire




ESSERE LACANIANI

Lacan diceva che una vera donna si riconosce dalla distanza che sa prendere dalla madre, intendendo con ciò che una donna è tale in quanto non si identifica tutta quanta nella propria madre, ma riesce a mantenersi nell'ordine del non-tutta e dunque in quella speciale singolarità che rende ogni donna una, una tra le altre.

Allo stesso modo il vero analista si riconosce dalla distanza che sa prendere dal proprio analista, dai propri supervisori, controllori e maestri, "padrini" e "padroni" e, se lacaniano, anche da Lacan stesso, per ritrovare e mantenere invece il proprio modo, singolare e unico, di essere e fare l'analista, pur muovendosi -nella sua pratica, e soprattutto se lacaniano- all'interno esclusivamente del Campo freudiano.

Perché -a mio avviso- essere lacaniani significa prima di tutto essere freudiani, non lacaniani, il che vuol dire stare attenti a non trasformare Lacan in quello che egli non è e, mi sembra, non voleva essere: un caposcuola, o il teorico di un nuovo orientamento psicoanalitico, o, meglio ancora, l'inventore di una nuova tecnica della psicoanalisi.

Lacan non ha messo su nuove teorie e nuove tecniche "post freudiane", ma è stato essenzialmente lo psicoanalista del ritorno a Freud, dell'inconscio strutturato come un linguaggio, e del reale nel sintomo, il che significa che egli ha portato avanti solo un insegnamento, un insegnamento rivolto esclusivamente agli psicoanalisti freudiani: l'insegnamento di come essi devono leggere Freud e come devono muoversi nel campo freudiano.

Lacan ha insegnato agli psicoanalisti come essere correttamente freudiani, non come essere lacaniani.

E dunque sì: “Noi crediamo, noi vogliamo, noi psicoanalisti lacaniani, allievi di Lacan, essere degli eretici”.




PSICOANALISI E IMPOSTURA

In un tempo come il nostro in cui imperversa sempre di più l'arte del mentire, del far credere di essere quello che non si è, del dare fumo nell'occhio vendendo fumo, dell'ingannare tutti su tutto, delle truffe organizzate, non solo finanziarie e commerciali, ma anche di identità e di sembianti, il campo della psicoanalisi non poteva evidentemente rimanerne del tutto fuori, non poteva non esserne ancora contaminato, lambito, interessato. 

Anzi, la psicoanalisi rischia oggi di essere ancor di più inquinata dall'impostura, poiché, essendo "una cura mediante la parola", si presta molto facilmente ad essere scambiata, dagli "impostori di professione" o dagli "impostori per vocazione", per un campo dove l'improvvisazione può apparire anche molto semplice e immediata, quasi legittima, oltre che difficilmente smascherabile, perché "tanto che ci vuole a sbolognare quattro chiacchiere" e ad inventarsi titoli e percorsi formativi credibili.

Riscontriamo infatti una diffusione crescente di sedicenti psicoanalisti, non solo tra coloro che, sapendo di non esserlo, si spacciano per psicoanalisti - e sono questi gli impostori veri e propri in quanto impostori consapevoli - ma anche - ed è questo l'aspetto a mio avviso ancora più preoccupante - tra tutti quelli che, pur credendo di essere psicoanalisti veri e propri, in effetti non lo sono - e sono, questi, gli impostori inconsapevoli, quelli addirittura più pericolosi..

Già Freud aveva messo in guardia dai cosiddetti "psicoanalisti selvaggi", intendendo con questa espressione quei professionisti della psiche che, non avendo intrapreso una adeguata formazione e, soprattutto, senza essersi mai sottoposti ad un'analisi personale, si improvvisavano lo stesso come psicoanalisti.

Ed è proprio pensando di raccogliere l'avvertimento di Freud, e dunque di tutelare e "garantire" adeguatamente la corretta pratica della psicoanalisi da parte di psicoanalisti "certificati", che negli anni 90, alcuni psicoanalisti della Società Italiana di Psicoanalisi si fecero promotore di una legge finalizzata al riconoscimento e alla legittimazione degli psicoterapeuti, e dunque anche degli psicoanalisti, poiché la psicoanalisi è anche una psicoterapia.

In Italia, esiste perciò, da quell'epoca, la legge che ha portato alla costituzione degli Albi degli psicoterapeuti, con lo scopo di contrastare il fenomeno della psicoanalisi selvaggia.

Purtroppo, dobbiamo però constatare, che in verità la legge ha ottenuto, piuttosto, l'effetto contrario, in quanto ha paradossalmente favorito la diffusione incontrollata di scuole di formazione che, benché legittimate nei termini di legge, di fatto hanno permesso percorsi formativi, almeno in ambito psicoanalitico, alquanto discutibili, tant'è che alcune di esse, pur di avere iscritti, consentono il conseguimento del titolo di "psicoanalista" anche senza richiedere obbligatoriamente un'analisi personale, che, come sappiano, è imprescindibile per diventare veramente uno psicoanalista.

In conseguenza di ciò, assistiamo oggi ad una sempre più consistente proliferazione, nel "mercato delle psicoterapie", di cosiddetti psicoanalisti, che di fatto psicoanalisti non possono essere considerati, dal momento che analisti si diventa soltanto attraverso la propria analisi e non perché si ha frequentato, o si sta frequentando una scuola, o perché si ha bazzicato o si sta bazzicando uno psicoanalista.

Assistiamo anche alla crescita incrementale di offerte di "psicoanalisi" di ogni tipo da parte di sedicenti psicoanalisti, che si ritengono tali sol perché, sfruttando il fatto che "psicoanalisti si diventa attraverso la propria analisi", e avendo fatto o avendo ancora in corso, un percorso, anche solo vagamente psicoanalitico, o magari anche di pochi mesi soltanto, o, addirittura, pur avendo solo un semplice contatto con uno psicoanalista senza mai frequentarlo, si credono "sufficientemente analizzati" e dunque nel diritto di autorizzarsi arbitrariamente alla pratica della psicoanalisi, senza essersi minimamente posto il problema che, evidentemente, ritenere di essere psicoanalista non basti alla pratica della psicoanalisi, se non si è stati prima in grado, o non si sia ritenuto, di dover dimostrare a qualcuno di essere uno psicoanalista, veramente, e non a chiacchiere. Sedicenti psicoanalisti che inoltre, praticando la psicoanalisi come terapia, cioè prendendo i cura pazienti, e non essendo riconosciuti legalmente anche come psicoterapeuti, almeno in Italia, si ritrovano di fatto per giunta nella illegale posizione di "esercizio abusivo di una professione sanitaria", che, come sappiamo, è penalmente perseguibile.

Per questo, visto che, purtroppo, il regime dell'impostura ha imparato ad occultarsi abilmente anche tra coloro che praticano la psicoanalisi, sarebbe bene che chiunque volesse intraprendere una cura psicoanalitica, o anche un percorso formativi o di sodalizio con supposti psicoanalisti, prima di affidarsi a chiunque dichiari di essere "psicoanalista", e millanti curriculum, titoli, esperienze e competenze, verifichi l'esattezza, la veridicità e l'affidabilità non solo del professionista in questione, ma anche del suo percorso formativo, della sua effettiva posizione presso eventuali Scuole cui dice di far riferimento, e se dovesse scoprire aspetti che non sono convincenti sul piano della serietà e dell'affidabilità, anche nel dubbio, meglio che scappi a gambe levate, tenendo anche presente che l'impostore ha una prodigiosa capacità di sedurre, di affascinare, di ingannare, di illudere, di stregare, di rassicurare; di scoprire quello che il suo pubblico è pronto a credere ed è avido di sentirsi dire e di adeguarvisi.




"METTO AL SICURO LA MIA RESPONSABILITA'

Non è nel sapere in sé, ma nel potermi assumere la responsabilità del mio sapere che mi costituisco come un soggetto: “Sono sul mare, capitano di una piccola imbarcazione. Vedo delle cose che si agitano nella notte in un modo che mi fa pensare che possa trattarsi di un segno. Come reagirò? Se non sono ancora un essere umano, reagisco con ogni sorta di manifestazioni, come si dice, modellate, motorie ed emotive, soddisfo le descrizioni degli psicologi, comprendo qualcosa…. Se invece sono un essere umano, registro nel giornale di bordo: alla tal ora, al tale grado di longitudine e di latitudine, abbiamo avvistato questo e quello. È questa la cosa fondamentale. Metto al sicuro la mia responsabilità.” (J. Lacan, Il Seminario - Libro III, le psicosi - 1955-56, pag. 216).

Il che vuol dire che un essere umano non è chi si limita a osservare i fatti che accadono, ma chi si assume la responsabilità sugli stessi, chi vi appone appunto la sua firma, mettendo -come dice Lacan- al sicuro la propria responsabilità.

Perché è lì, nell'atto di assumermi la mia responsabilità - di assicurarla e garantirla - che mi posso costituire come soggetto.

Il soggetto non è colui che sa, ma colui che è in grado di sottoscrivere ciò che sa, di sapersene fare qualcosa.

Detto in altri modi: non basta un sapere per costituirsi come soggetto, ma occorre sapere cosa farsene del proprio sapere. Non basta sapere, occorre saperci fare col sapere.

Per dirlo ancora diversamente: è’ nel punto di intersezione della verticalità della funzione simbolica sulla orizzontalità delle coordinate dell’identità e dell’immaginario che si costituisce il soggetto. Quel soggetto che così inteso può riconoscersi un po’ di più nella particolarità del proprio desiderio, nella unicità della propria storia e nella assunzione di un progetto senza, per questo sentirsi, nella solitudine del suo essere, troppo smarrito nel mondo.

Ora, quanti oggi possono dirsi in grado di assumersi e mettere al sicuro la responsabilità di quello che vedono, di quello che sentono, di quello che dicono, di quello che credono di sapere?

In un'epoca dominata dalla proliferazione senza limiti di saperi praticamente su tutto e nella disponibilità di tutti, quanti sono veramente in grado di sapersene fare qualcosa? Di saperci responsabilmente fare col sapere?

A questo punto noi analisti speriamo di poter condurre un soggetto, al punto in cui il sapere può diventare un saperci fare, dando parola a ciò che alla parola è stato sempre sottratto, a permettere insomma che il soggetto possa riorganizzare la trama del proprio discorso e trovarvi un posto in cui, riconoscendolo come il suo proprio, possa starci in maniera più sopportabile, e in modo maggiormente responsabile.



UN PADRE PSICOANALISTA

Quello di psicoanalista è l'unico mestiere che non può trasmettersi di padre in figlio.

Questo non significa che il figlio di uno psicoanalista non possa a sua volta diventare anch'egli uno psicoanalisti, e anche bravo. Di questo ne abbiamo infatti molti esempi, anche eccellenti.

Significa solo che, evidentemente, in questo caso, occorre un lavoro in più sul piano delle disidentificazioni.

A differenza delle altre professioni, avere un padre psicoanalista non facilita il percorso, in genere lo complica, e questo non può che essere un bene.




LA PRESENZA DELL' ANALISTA

Cosa si intende per presenza dell'analista? Per Lacan non è certo qualcosa che si possa ridurre, come dice, ad una sorta di "predicheria lagrimevole" o di "carezza appiccicosa".

Piuttosto, dal momento che l'analista, in quanto destinatario del transfert, è in fondo "una manifestazione dell'inconscio", e poiché l'inconscio si manifesta attraverso ciò che dal discorso dell'analizzante viene a mancare, ecco che la presenza dell'analista si costituisce come ciò che, nell'orizzonte del transfert, viene a mancare, viene a scomparire. 

Viene a scomparire perché l'analista sa che non è lui, la sua figura, la sua persona, che il paziente veramente cerca. 

Anche se è all'analista che l'analizzante indirizza la parola che proferisce, anche se è a lui che si rivolge e su di lui si sostiene nel proprio dire - ed è qui, nel luogo della parola, che l'analista deve infatti saper farsi trovare - quella del paziente è sempre una parola "trasferita", poiché è sempre altro ciò che egli cerca, ed è ad un Altro, non all'analista, che egli si rivolge veramente, in quanto è sempre ad un Altro che l'analizzante indirizza il proprio desiderio, sia pure attraverso una parola solo apparentemente destinata all'analista: l'analista - come lo fu Socrate per Alcibiade - è solo il "mezzano", non il vero destinatario, del desiderio del proprio analizzante, dice infatti Lacan.

In altri termini, se l'analista deve essere presente sul luogo del dire, non lo è, non può esserlo, su quello del desiderio, del quale è piuttosto "oggetto causa" e non oggetto di soddisfacimento.

Ecco perché la parola dell'analista, come dice Lacan, è sempre "la parola che non ci si aspetta", in quanto parola che giunge da un luogo altro, e cioè dal luogo dell'Altro, dunque non una parola che "dice", ma una parola che "sorprende".

La presenza dell'analista è quindi una controfigura dell'assenza, in quanto il campo in cui egli opera è quello dell'inconscio freudiano, "un campo che, per sua natura, si perde", e la cui causa è sempre una causa perduta, poiché l'oggetto in questione è un oggetto perduto e mai ritrovato.

L'analista, allora, è il testimone di una perdita e di un incontro che è sempre un incontro mancato: l'incontro con il desiderio soggettivo, un incontro che può avvenire solo a partire da una perdita e sostenersi solo attraverso un analista che sa mancare quando serve.



LA SCENA ANALITICA

Che cos'è in fondo l'esperienza analitica? Nient'altro che una "messa in scena", vale a dire la costituzione di uno scenario - "la scena analitica" appunto - in cui l'analizzante è il regista e il protagonista al tempo stesso, mentre l'analista colui che occupa il ruolo che il proprio analizzante di volta in volta gli assegna, ora quello di padre, ora di madre, oppure di fratello, o di amico, o di compagno, ecc. 

In altri termini quello di un "significante qualunque", come dice Lacan, con il quale l'analista deve stare attento a non identificarsi, altrimenti farebbe da obiezione al transfert. 

E' in fatti la scena analitica lo scenario entro cui l'analista -riducendosi a mero "oggetto causa" - può comprendere il transfert, al di là di quello che l'analizzante dice.

Per Lacan la scena analitica si costituisce come effetto del fantasma fondamentale del soggetto, poiché essa è da intendersi come la trama di quel tessuto, di quella stoffa (étoffe è il termine che usa Lacan) che il fantasma offre al soggetto per sostenerlo nel suo desiderio, nel luogo in cui il soggetto si ritrova come un Je, vale a dire nel luogo della rimozione primaria.

La scena analitica è dunque lo scenario in cui il desiderio umano, trovandovi la trama discorsiva che il fantasma gli offre, può essere interpretato e il soggetto non precipitare nell'abisso che il desiderio, in quanto pura mancanza, gli spalanca.

Per questo è l'analizzante, non l'analista, che dirige la scena analitica, laddove è l'analista, non l'analizzante, a dirigere la cura analitica che rende possibile che vi si possa "disfare filo per filo", come dice Freud, il tessuto, la trama del desiderio.




L'ATTO PSICOANALITICO E' CHIRURGICO

Lo psicoanalista al lavoro è più prossimo al chirurgo che allo psicologo.

Egli usa la parola come bisturi: una parola che raggiunge, tocca, incide, taglia, toglie, fa sanguinare ma libera.

Come il chirurgo, l'analista non perde tempo in chiacchiere, ma, come il chirurgo, ascolta. Ascolta il discorso del paziente che si esprime attraverso il sintomo, e là dove il chirurgo risponde con il bisturi, l'analista risponde con il taglio della parola.

Entrambi, lo psicoanalista e il chirurgo, sono tenuti -e ne rispondono- al loro atto, rispettivamente l'atto analitico e l'atto chirurgico. Sono atti, e non azioni, perché entrambi portano a un dopo che non sarà mai più come il prima.

Entrambi, l'analista e il chirurgo, sanno bene-dire: l'essenziale, la parola giusta, quella che serve.

Entrambi, l'analista e il chirurgo, provano dei sentimenti - umani - nei confronti del loro paziente - gli analisti li chiamano "controtransfert", i chirurghi "compassione"- ma entrambi sanno che non sono questi, né l'empatia di cui pure è bene siano dotati, a permettere il corretto uso della parola nell'uno, del bisturi nell'altro, essendo i sentimenti causa del desiderio di curare, e non ciò da cui la cura trae la sua efficacia, potendone essere piuttosto l'impiccio, l'ostacolo.

Se il chirurgo si seve dell'anestesia, l'analista si avvale delle libere associazioni: entrambe permettono che altro non faccia da ostacolo alla messa in evidenza di ciò che - essendo nascosto - deve poter venire fuori: il reale di ciò che non va in un corpo parlante.

Entrambi, infine, l'analista e il chirurgo, sanno che il loro paziente sarà portato al limite estremo tra la vita e la morte, perché la vita la si ritrova solo sul limitare della morte, il punto in cui un soggetto che soffre ottiene la propria salute.



LA PSICOANALISI E' IL DETTO DEL SOGGETTO, NON DELL'ANALISTA

Vorrei trasmettere a tutti il sentimento che la psicoanalisi non è affatto un insieme di teorie, o peggio, di opinioni degli psicoanalisti sul soggetto umano.

La psicoanalisi, al contrario, è il detto del soggetto, non degli psicoanalisti, vale a dire quello che il soggetto, o meglio, l'inconscio del soggetto dice in analisi e che lo psicoanalista ascolta.

La psicoanalisi dunque esiste a prescindere e prima degli psicoanalisti, tant'è che si può dire che Freud ha inventato gli psicoanalisti, non la psicoanalisi.

La psicoanalisi la inventano invece, ogni giorno, i pazienti, quando parlano al loro analista, durante le sedute.

Quindi, cortesemente, quando sentite qualcosa di psicoanalitico che non vi piace, prendetevela con voi stessi, non con gli psicoanalisti.

NON LO SO

Coloro che -come i teorici di certe derive psicoanalitiche cosiddette post freudiane spinte fino ai limiti del cognitivismo e delle neuroscienze- sostengono che l'Inconscio, così come ce lo ha indicato Freud e come Lacan ha ripreso e rilanciato, sia un postulato di cui si possa e si debba fare ormai a meno in quanto obsoleto e superato, come spiegano il fatto che, come risulta dalla nostra esperienza clinica, il soggetto sembra essere sempre più afflitto da una serie di "non so", come unica risposta possibile ad almeno tre domande fondamentali che egli rivolge a se stesso, e cioè, in ordine di frequenza:

1) Cosa voglio? Non lo so

2) Lo/la amo? Non lo so

3) Ma io chi sono? Non lo so.

Come se li spiegano i cognitivisti o i neurofisiologi questi "non lo so" su se stessi, cioè su un ambito così personale che, è il caso di dire, "se non lo sai tu chi lo dovrebbe sapere?"

Non postulando più l'inconscio, e quindi non disponendo più della rimozione, come se li spiegano i cognitivisti e i neurofisiologi questi "non lo so"? Con il fatto che i poverini erano assenti a scuola quando la maestra li ha spiegati? Con la mancanza del neurone del sapere soggettivo? O come?

Il "misterioso salto" non è tra psiche e soma -che sono piuttosto la stessa cosa- ma tra il sapere supposto e il sapere soggettivo.

L'ANALIZZANTE E' UN MIGRANTE

Perché la cura psicoanalitica non è assimilabile a nessun'altra cura, né tanto meno ad una qualsiasi terapia medica che si prefigga come fine la cosiddetta guarigione, vale a dire quell'esito che consiste nel ritorno alla condizione di salute precedente alla malattia?

Perché la cura psicoanalitica, benché si rivolga a chi soffrendo la richieda per essere aiutato a stare meglio, non si pone come fine quello della guarigione, dal momento che non si tratta di curare una malattia, ma di favorire un cambiamento di "stato", vale a dire un cambiamento delle condizioni soggettive: da condizioni di soffrenza a condizioni nuove e tali da permettere di poter vivere con minore sofferenza. Il che è molto diverso dal concetto di guarigione come comunemente inteso in medicina, perché non si tratta di ritornare ad uno stato di salute precedente, ma di guadagnarne uno nuovo, percui, in analisi, il dopo non sarà mai come il prima.

Si tratta, in altri termini, attraverso l'analisi, non di recuperare una salute perduta, ma di guadagnare modi nuovi ed inediti del proprio essere. Per questo, mentre le guarigioni sono sempre salutate con sollievo, in quanto riportano al proprio stato abituale e conosciuto - il che è sempre molto rassicurante, perchè non può che essere rassicurante ritrovare le proprie cose come le avevamo lasciate prima di ammalarci - i cambiamenti che si ottengono attraverso l'analisi, per quanto desiderati e anche "sudati" attraverso un lavoro che è anche molto più impegantivo di quello che si richiede in medicina per una guarigione, possono tuttavia causare, invece che sollievo, sconcerto, angoscia, senso di "spaesamento" in quanto cambiamenti che, benché desiderati e anche riconosciuti come migliorativi e benefici, posono essere tuttavia avvertiti anche come condizioni soggettive nuove, sconosciute, estranee, e quindi tutt'altro che rassicuranti. 

Insomma, il procedimento analitico, a differenza della cura medica, non è mai un ritorno al prima, al solito, al conosciuto, ma è piuttosto un transito, un percorso, verso una condizione nuova, inedita, non ancora riconosciuta come propria, come quella a cui, pur nella sofferenza, ci si era ormai abituati. 

E', l'analisi, il passaggio da uno "stato conosciuto" ad un "stato nuovo e sconosciuto". Il paziente in analisi è dunque come un "migrante" che affronta un viaggio per portarsi da uno "Stato" insopportabile, ma conosciuto, ad uno "Stato" nuovo, ma sconosciuto, ad una "terra promessa", nella speranza che sia più sopportabile di quella che si lascia alle spalle, ma che intanto, appena vi si approda, può apparire ancora tutta da esplorare. In questo senso l'analisi è come il passaggio da un "inferno" sicuro, ma noto, ad un "paradiso" probabile, ma ancora ignoto, dove l'angoscia non è per il paradiso ritrovato, ma per l'inferno perduto.

LASCIARSI ANDARE IN ANALISI

Molti, anche tra gli psicoanalisti, credono che, in analisi, occorra che il paziente si "lasci andare" affinché emerga l'inconscio, affinché emerga soprattutto attraverso le emozioni - di cui bisogna parlare liberamente e senza inibizioni. 

Allo stesso modo, e specularmente, molti analisti credono che anche loro devono lasciarsi andare al libero "ascolto" delle proprie emozioni in maniera tale da metterle in "risonanza" con quelle del paziente, ritenendo che una buona cura consista nella "libera circolazione delle rispettive emozioni", e i suoi effetti dipendano da quella sorta di "buon contatto emozionale", che un analista deve saper stabilire - come la "celeste corrispondenza d'amorosi sensi" di foscoliana memoria - con il suo paziente. Gli analisti che seguono questo metodo definiscono le loro analisi come basate sull'empatia e sull'uso del controtransfert, per cui tali analisi, come ebbe a dirmi un collega, non utilizzano la parola, ma la persona dell'analista. Si tratta dunque di "analisi interpersonali".

Di conseguenza, gli analisti dell'empatia e del controtransfert ritengono che, se vi sono resistense, paure, diffiocoltà da parte del paziente, nel processo dell'analisi, è perché egli - non l'analista - resiste a lasciar andare liberamente le proprie emozioni e dunque a che l'inconscio si manifesti attraverso di esse. 

In effetti, questa visione - perché, a mio avviso, esattamente di una "visione" si tratta - misconosce che per la verità l'inconscio non ha bisogno di nessun "lasciarsi andare" affinché emerga, e che è semmai il contrario. Come infatti Freud ci ha fatto notare molto scrupolosamente, e come l'esperienza conferma continuamente, l'inconscio emerge proprio quando meno ce lo aspettiamo e quanto meno ci lasciamo andare: emerge innanzitutto nel sintomo (lì, non nelle emozioni, sta l'inconscio che interessa allo psicoanalista), oppure nei lapsus, negli atti mancati, nei sogni e nella sofferenza del nevrotico. Il nevrotico soffre proprio perché è troppo avvolto dal proprio inconscio, che emerge continuamente e stabilmente nel suo sintomo, e duqnue un nevrotico non ha certo bisogno di lasciarsi andare per metterci di fronte al suo inconscio: il suo inconscio sta già lì, nel sintomo di cui parla continuamente.

Dunque, l'analisi vera e propria non abbisogna di un tale lasciarsi andare, non è per far emergere emozioni che il paziente viene in analisi, né è questo che serve ad un'analista vero. Il lasciarsi andare alla proprie emozioni serve piuttosto nei centri benessere, non nella stanza d'analisi.

In che cosa invece deve lasciarsi andare il paziente in analisi? A quello che l'analista gli chiede, e che Freud ha raccomandato che gli analisti chiedano ai propri pazienti: di dire, liberamente e sena freni, tutto quello che viene in mente. 

Il paziente deve lasciarsi andare dunque, non alle emozioni, ma alla parola, e l'analista non deve farvi da ostacolo: l'analista non deve fare da ostacolo a che il paziente metta in parola il suo inconscio attraverso le libere associazioni, associazioni di parola e non di emozioni. Le emozioni, invece, e soprattutto lasciarsi andare ad esse, sono un modo per fare da ostacolo alla parola. Questo non significa che, se in seduta il paziente vive una intensa emozione, l'analista lo debba mandare via e non invece accoglierlo e, perché no, anche sostenerlo: significa solo che, in quel momento, vi è una sospensione, un intoppo delle libere associazioni. Né significa che in quelle emozioni non ci sia inconscio, ce ne è eccome, ma vi è inconscio in un modo tale che non è interpretabile. Interpretare le emozioni non è, a mio avviso, analiticamente corretto, perchè qualsiasi cosa se ne possa dire sarebbe dell'ordine dell'immaginario.

Quello che allora, in analisi, è difficile, quello a cui si resiste - e spesso vi resiste più l'analista che il paziente (se c'è una resistenza in analisi è quella dell'analista, dice Lacan) - è proprio parlare attraverso le libere associazioni, dire senza pensare. Si resiste alla parola, non alle emozioni, perché? Perché la parola detta in analiisi è già interpretazione dell'inconscio, e se è interpretazione dell'inconscio è già un sapere su di esso, un sapere che si apre sul proprio inconscio. Sapere del proprio inconscio è essenziale per la cura perché nulla può essere curato se non attraverso il sapere, un sapere che, essendo sull'inconscio, è sempre un sapere sulla causa, vale a dire sul "reale", in ultima istanza, un sapere sul reale del proprio desiderio, e il reale del proprio desiderio è un vuoto.

Per questo si resiste alla parola, perché si resiste al sapere al di là del desiderio che pure si ha di curarsi e di poter stare meglio.

Si resiste al sapere su di sé, sul proprio inconscio e sul proprio desiderio perché, portandoci sul bordo di un vuoto, il sapere ci fa paura, ci angoscia. E infatti Lacan ce lo dice chiaramente: "quello che presiede al sapere non è il desiderio, ma l'orrore".

DURATA E COSTI DELLA CURA PSICOANALITICA

Generalmente si ritiene, erroneamente, che un'analisi duri necessariamente a lungo, anche molti anni, e dunque comporti costi molto elevati e non sostenibili per la maggior parte di coloro che potrebbero avvantaggiarsene.

Quello della durata e dei costi di un'analisi è oggi un luogo comune molto diffuso, alimentato soprattutto dai suoi detrattori, i quali se ne servono per scoraggiare coloro che potrebbero servirsene e per orientarli invece verso altri tipi di cura. 

Si tratta infatti, per lo più, di psicoterapeuti che, di contro, promettono percorsi di cura che, a loro dire, risolverebbero problemi, sintomi e sofferenze soggettive nell'arco di poche settimane o al massimo di qualche mese, definitivamente e a costi molto più accessibili. 

Anche molti psichiatri accusano la psicoanalisi di essere una cura lunga e costosa, rispetto a quella farmacologica che secondo loro risolverebbe la sofferenza psicologica in brevissimo tempo e a costi anche qui molto più sostenibili. 

Argomenti, questi, però, difficilmente credibili, poiché anche i bambini sanno che nessun disturbo psicologico può essere effettivamente, e definitivamente, risolto, soprattutto anche nelle sue cause, in tempi brevissimi! Tanto è vero che, dopo un po' dalla conclusione di una "psicoterapia breve", o di una terapia farmacologica, i disturbi che sembravano scomparsi ritornano regolarmente e, molte volte, anche più gravi di prima.

Senza contare che spesso gli stessi psichiatri che accusano la psicanalisi di essere lunga e costosa, finiscono poi col prescrivere psicofarmaci con la raccomandazione ai loro pazienti di assumerli addirittura per tutta la vita, contraddicendo di fatto l'asserzione di partenza che quella farmacologica sarebbe una cura più rapida, più breve e più efficace di un trattamento psicoanalitico!

In verità, al di là di quello che si possa dire, a destra e a manca, contro la psicoanalisi, si dà il caso che gli studi degli psicoanalisti sono sempre più frequentati da pazienti delusi dalle cosiddette psicoterapie brevi o stanchi delle croniche somministrazioni di psicofarmaci. 

Difficilmente si verifica invece il contrario, e cioè che pazienti in analisi interrompano il loro percorso per rivolgersi alle psicoterapie brevi o alle cure psicofarmacologiche!

Mettiamo allora le cose in chiaro: non è affatto vero che una cura psicoanalitica debba necessariamente durare anni. 

Uno psicoanalista non ha nessun interesse e nessuna necessità che un'analitica duri per un tempo per forza prolungato. L'analista, piuttost0, sa bene che invece è tenuto a rispettare i tempi del paziente, vale a dire a rispettare il tempo che serve a ciascun paziente per poter venire a capo delle proprie difficoltà, e per poter arrivare a vivere meglio di come viveva prima dell'inizio della sua analisi. 

In altre parole, non è l'analista che può stabilire in anticipo la durata di un'analisi, essendo questo piuttosto il caso delle cosiddette psicoterapie brevi, che tali sono perché la loro conclusione è prestabilita a prescindere delle reali necessità cliniche del paziente.

Quello che invece lo psicoanalista dichiara in anticipo è che un'analisi durerà il tempo che serve e che il paziente è disposto a sostenere: da parte di uno psicoanalista non vi sarà mai alcuna pressione, alcuna forzatura, alcun obbligo, alcuna prescrizione circa la durata della cura! 

Molte analisi si concludono in breve tempo, altre durano più a lungo, ma in entrambi i casi il paziente ne trae i propri benefici e la propria soddisfazione. 

Uno psicoanalista dunque ha il dovere, non di imporre una durata standard e prestabilita per tutti, ma di farsi trovare nel luogo della cura, di assicurare la propria presenza per tutto il tempo che serve, non a lui stesso, ma al paziente: un analista non può né trattenere un paziente oltre, né mandarlo via prima, del tempo necessario.

Per quanto riguarda poi i costi, certamente un trattamento psicoanalitico, come tutte le cure che avvengono in uno studio privato, ha un proprio costo. 

Ma anche questo non è detto che sia necessariamente elevato e insostenibile per il paziente. Oggi, molti psicoanalisti, nei limiti del possibile, vengono incontro ai loro pazienti, e molte analisi sono commisurate, per quanto riguarda il numero delle sedute settimanali, alle necessità e alle possibilità del paziente. 

Che i costi delle cure psicoanalitiche, rappresentino il più delle volte un impedimento prevalentemente immaginario, o addotto dai detrattori per scoraggiarle, è dimostrato dal fatto che in genere, come è esperienza di molti analisti, i pazienti non si lamentano dei costi della loro analisi, dichiarandone invece per lo più i benefici. 

I costi di una qualsiasi terapia, piuttosto, tendono invece ad essere avvertiti onerosi, o addirittura insostenibili, se alla lunga non danno un corrispettivo in termini di benefici percepibili come risposta a quello che un paziente riconosce come la vera domanda che è alla base di ogni cura: quella di poter stare meglio a livello della "causa" di una sofferenza e non del sintomo che essa produce,

E infatti, sappiamo bene, da questo punto di vista, che, se pure i costi monetari dei farmaci o di certe terapie brevi, possono essere presentati come più "abbordabili" di quelli di una psicoanalisi, molto più onerosi saranno i costi conseguenti alla scarsa utilità, agli effetti collaterali o alle tossicità da consumo prolungato di psicofarmaci, e anche i costi sociali per inabilità e perdite di capacità o giornate lavorative. 

Dunque, in buona sostanza, valutando globalmente ciascuna terapia dal punto di vista dei rapporti tra durata, costi in genere e benefici, la psicoanalisi, se pure non è la meno cara dal punto di vista dei suoi costi monetari, è sicuramente la più conveniente sul piano dei benefici e dei risultati che permette di conseguire in maniera efficace e duratura, peraltro senza alcun rischio di intossicazione cronica da assunzione prolungata di sostanze chimiche, o di giornate lavorative perse.


COME PROCEDE UN'ANALISI

Freud dice che l'analisi procede per "via di togliere". Togliere cosa? L'Altro, che ci portiamo appiccicato addosso come una piovra.

L'analisi procede attraverso le "separazioni" che man mano consente. 

TELE-SEDUTA

«Vedersi e parlarsi non fa una seduta analitica» 

(J-A Miller) 

Un testo molto bello di Esthela Solano, psicoanalista a Parigi che tutti gli entusiasti delle sedute via Skype dovrebbero leggere e che qui riporto nella traduzione in italiano di A. Succetti:

"Siamo tutti confinati. Per il momento questo si coniuga al presente, non senza una sorta di strana atemporalità. SARSCoV-2 è il virus responsabile della malattia COVID-19 dotato di un potere letale sui corpi dei parlanti. Per questo, attraverso l’infezione, lo statuto del loro essere è passibile di cambiare, diventando allora “degli esseri malati”. Il COVID-19 ha scavato un buco planetario che sconvolge tutti i livelli dell’organizzazione sociale.

Questi livelli sono molteplici, e ciascuno merita di essere considerato, ma la conseguenza più eminente è l’isolamento dei corpi che si è imposto.

Tuttavia, grazie all’estensione planetaria di internet che generalizza le tecnologie informatiche, la presenza virtuale in tempo reale è venuta ad alleviare gli uni e gli altri dal senso opprimente di solitudine in questo tempo di isolamento.

Questa possibilità deriva, secondo Lacan, dall’operazione del discorso della scienza che, servendosi del significante numerico ha fatto discendere dalla volta celeste una serie di oggetti, di apparecchi e di aggeggi che oggi popolano il nostro quotidiano. Nota che, tramite il discorso della scienza, il reale si è messo a brulicare in un modo incredibile, e questo mediante degli apparecchi che ci schiacciano e ci dominano. Ritiene allora che l’analisi sia la sola cosa che possa permetterci di “sopravvivere al reale”1. E questo grazie alla funzione della lalingua, il cui filo ci apre la via per leggere la traccia di un altro sapere, quello dell’inconscio. Notiamo che questa affermazione di Lacan è enunciata molto prima che sorgessero gli oggetti che attrezzano i corpi degli esseri parlanti nel XXI secolo.

Il confinamento necessario ha introdotto forzatamente la sospensione della pratica psicoanalitica. Fatto inedito sino ad ora. La seduta analitica sotto le specie dell’incontro dei corpi ormai non può più aver luogo.

Non importa! Se non possiamo incontrarci materialmente per una seduta d’analisi, pratichiamo la tele-seduta, alla stregua della direttiva ricevuta di restare a casa e di praticare il telelavoro. Durante il confinamento ci si connette maggiormente. È una vera e propria infatuazione, in cui ci si invischia sino all’intasamento.

Grazie ai gadgets si può avere la presenza virtuale dell’analista a casa propria, e parlargli. Se questo rimedio s’impone in circostanze eccezionali, ciò significa forse che è una seduta d’analisi? «Vedersi e parlarsi non fa una seduta analitica» dice Jacques-Alain Miller, perciò è «necessaria la compresenza in carne e ossa»2.

E questo tanto più che il concetto di parlessere traduce che «l’inconscio rileva dal corpo parlante»3, a differenza del soggetto dell’inconscio che rileva «dal logico puro»4. L’uomo ha un corpo e parla con il suo corpo, strumento della parola: «La parola colpisce questo corpo che ne è il suo emittente […] sotto forma di fenomeni di risonanza e di eco»5. Il corpo si gode degli effetti traccianti de lalingua che lo affettano, di cui il sinthomo, in quanto evento testimonia.

Di contro, il corpo dell’analista nella seduta analitica è lo strumento di un discorso senza parole, che dà corpo all’atto analitico e che condensa nel sembiante il godimento fuori senso dell’analizzante.

Da quello che precede, possiamo supporre che il dispositivo della tele-seduta, in cui i corpi sono ridotti alla loro immagine tramite uno schermo, è condannato all’impotenza di fronte all’impossibile.

Questa tesi merita di essere sottoposta alla prova del reale.

Resta il fatto che l’epidemia del COVID-19 ha scatenato l’epidemia della tele-seduta e del tele-consulto. Può darsi che la pandemia abbia così legalizzato e dato senso a una pratica già in corso, rendendola normale.

Sono per questo tecnofoba? Essendo guidata dall’etica delle conseguenze, la mia questione concerne l’avvenire della psicoanalisi.

Se la furia cibernetica ha il sopravvento, preferisco essere eretica, cioè «scegliere per quale via prendere la verità»6. Questa scelta è la scelta di non elidere il corpo a corpo della seduta analitica, di resistere allo svuotamento della sua sostanza moteriale, alfine di contrastare la trasformazione dei corpi in carne e ossa in corpi gloriosi. È la scelta di non far passare la psicoanalisi al rango di una pratica qualunque, perché pratica di massa."

[1] J. Lacan, Conferenza data al Centro culturale francese, in Lacan in Italia 1953-1978. En Italie Lacan, Milano, La Salamandra, 1978, p. 106.

[2] J.-A. Miller, XXI secolo – prossima la mondializzazione dei lettini? Verso il corpo portatile, disponibile su: https://www.slp-cf.it/rete-lacan-n5-30-marzo-2020/

[3] J.- A. Miller, Habeas corpus, in “La Psicoanalisi”, 60, Roma, Astrolabio, 2016, p. 27.

[4] J. Lacan, Quarta di copertina, Scritti, Torino, Einaudi, 2002.

[5] J.- A. Miller, Habeas corpus, op.cit.

[6] J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il sinthomo, Roma, Astrolabio, 2006

PSICOANALISI LACANIANA E PSICOANALISI POST-FREUDIANA

La psicoanalisi lacaniana e quella degli sviluppi cosiddetti post-freudiani non procedono nella stessa direzione, né condividono le stesse finalità.

La psicoanalisi lacaniana muove in effetti da quella che Lacan chiama "la rettifica del soggetto", vale a dire da quell'atto analitico che, permettendo all'analizzante di riconoscersi come soggetto implicato nel proprio sintomo, permette anche che si impianti il "transfert", inteso, in questa prospettiva, non come una "ripetizione del passato sul presente", ma come "legame sociale", vale a dire come quel legame con l'analista che insiste sul registro del Simbolico e non su quello dell'Immaginario.

In altri termini, una sorta di "adozione" del proprio analista da parte dell'analizzante, e tale da consentire che l'interpretazione sia interpretazione "sotto transfert" e non piuttosto interpretazione "del transfert."

Solo procedendo in tal modo, l'analista lacaniano può condurre l'analizzante verso quell'unica meta che consenta di poter stare meglio con se stesso e con gli altri: saperci fare di più con il proprio sintomo, con il proprio inconscio, con il proprio godimento, affinché sia l'analizzante a trarne vantaggio per la propria salute a scapito delle pulsioni, e non, viceversa, le pulsioni a scapito della salute dell'analizzante, come avveniva prima.

Al contrario, le analisi dei post freudiani, prendendo le mosse, non dalla rettifica del paziente sul proprio sintomo, ma "dall'alleanza" del suo io con quello dell'analista - vale a dire dalle identificazioni con l'analista - tendono a favorire un transfert come effetto della ripetizione immaginaria delle figure del passato del paziente su quella dell'analista: un transfert che si inscrive dunque più sull'ordine dell'Immaginario che su quello del Simbolico.

In quest'altra prospettiva, allora, le interpretazioni dell'analista finiscono per essere più interpretazioni "del transfert", che "sotto transfert", vale a dire più interpretazioni dei modi attraverso cui il paziente "interagisce" (specularmente) con il proprio analista, che del suo inconscio.

Di conseguenza, le analisi dei post freudiani, piuttosto che condurre il paziente a "riconoscere" il proprio desiderio inconscio in termini di ciò che lo "destituisce" da soggetto pienamente accordato alla realtà che lo circonda attraverso le proprie identificazioni, lo rende maggiormente funzionale, "identificato" e "integrato" a quest'ultima.

In sintesi, possiamo dire che la direzione della cura dell'analisi lacaniana, procedendo secondo la sequenza "rettifica dell'analizzante sul sintomo-transfert-interpretazione dell'inconscio", di fatto, rovescia la successione di quelle post freudiane che procedono invece lungo l'asse "interpretazione-transfert-rettifica della posizione del soggetto con la realtà esterna e con le sue identificazioni." 

UNA MANCANZA CHE NON PUO' MANCARE

Spesso sentiamo ripeterci, in analisi, ma anche fuori, e molte volte anche con una certa apparente soddisfazione: "riesco veramente a non farmi mancare nulla!"

Bene, riuscire a disporre di tutto ciò che serve è una cosa magnifica, ma perché allora ripeterselo? E perché ripeterlo in analisi?

In effetti, non possiamo prima o poi non renderci conto che, evidentemente, quello che è in questione, non è tanto che non ci manchi nulla, ma che ripetercelo è piuttosto un modo per non accorgerci di quello che davvero possa mancarci, un modo cioè per evitare fare i conti col fatto che un essere umano è tale, non perché non non gli manchi nulla, ma proprio perché, al contrario, è sempre mancante di qualcosa. 

L'essere è sempre una "mancanza-a-essere" dice Lacan.

In altri termini, quando, nel nostro campo, parliamo di mancanza e della sua importanza, non ci riferiamo certo alla privazione dei beni essenziali, che invece è bene che tutti abbiano e ne possano disporne.

Ci riferiamo alla mancanza come condizione del desiderio, in quanto tensione verso l'Altro e base della domanda, di quella domanda indispensabile al legame sociale e anche all'amore.

Senza la capacità di desiderare, si è esclusi dall'amore, si soffre, ci si ammala e si muore anche. Si muore dentro.

L'ANALISTA NON DEVE INTERPRETARE MA DISTURBARE LE DIFESE

Nella clinica psicoanalitica contemporanea, i nuovi modi di soffrire oggi, dell'essere umano, ci dovrebbero portare, come aveva ben previsto Lacan, a cercare di favorire soprattutto lo scarto, l'intervallo che si pone nel rapporto tra il soggetto con il suo reale, più che con il simbolico, e dunque più che all'inconscio rimosso, l'analista deve puntare dritto alla pulsione.

E alla pulsione si arriva, non interpretando le difese, ma smontandole.

L'analista dunque, più che interprete delle difese ne è deve essere il "disturbatore", come magnificamente si esprime Lacan verso la fine del suo insegnamento, nell'ultima lezione dell'11 gennaio 1977 del Seminario XXIV (inedito):

"L'inconscio, è che, insomma, si parla (…) tutto-solo. Si parla tutto-solo, perché si dice sempre e solo la stessa cosa – tranne se ci si apre a dialogare con uno psicoanalista. Non c'è modo di fare altrimenti che ricevere da uno psicoanalista ciò che disturba la difesa."

COME INIZIA UN'ANALISI?

Un'analisi può prendere inizio solo a partire da quella che Lacan definisce la "rettifica del soggetto" sul proprio sintomo da parte dell'analista, e che può considerarsi il primo atto analitico, quello che fonda la possibilità della domanda da parte dell'analizzante.

Infatti, non può esserci nessuna domanda di analisi finché il sintomo - di cui il paziente si serve per rivolgersi ad un dottore - sia avvertito, come succede abitualmente - e come l'approccio psichiatrico, o fenomenologico, o cognitivo, inducono a credere - in termini di qualcosa da placare, da sedare, senza che ci si domandi perché ci sia. E se non c'è domanda di analisi, non ci può essere accesso alla cura. 

Per questo, l'analista deve prima di tutto correggere, rettificare, la posizione del paziente rispetto al proprio sintomo: rettificare significa far notare al paziente che non è possibile placare qualcosa che egli stesso produce e senza sapere perché lo produca.

Rettificare il soggetto sul proprio sintomo significa aprire la via affinché il paziente si disponga - come dice Lacan - nella "posizione dell'isterica": da "come posso eliminare questo?" a "cosa vuol dire questo?"

Solo in questo modo può prendere avvio, e procedere, un'analisi, perché curarsi mediante la psicoanalisi significa fare luce su quel vuoto di sapere da cui il paziente in effetti parla, e soffre, e che Freud ha chiamato inconscio. 

Una cura psicoanalitica non ha di conseguenza niente a che vedere con il vasto capitolo delle cure intese come pratiche della consolazione, della rassicurazione, del conforto, o che si avvalgano delle "tecniche", o delle "strategie" o delle escogitazioni empatiche, tutte posizioni o manovre, che - per la verità - non fanno altro, alla lunga, che fare obiezione al poterne saper qualcosa di più su se stessi al fine di potersela cavare un po' meglio, con sé stessi, con gli altri e col proprio sintomo.

In quanto dottori, basta essere sufficientemente umili per rendersi conto che, per poter consentire a qualcuno un po' di salute mentale in più, non può esservi altra via se non quella che passi per un'interrogazione soggettiva.

PRIMA SEDUTA GRATUITA

Sento spesso parlare di colleghi psicoterapeuti e psicologi che "offrono" gratuitamente la prima consultazione. 

Per carità, non mi permetto di criticare e giudicare nessuno, e mi rendo conto che il gesto vorrebbe dare un segnale di generosità da parte del dottore, oltre che di facilitazione ad intraprendere un percorso di cura, un "incoraggiamento", insomma.

Io però credo che, prima di mettere in atto una decisione di questo tipo - perché quello della prima seduta gratuita è un atto clinico vero e proprio in quanto atto che produce, al di là di quello materiale, anche un effetto psichico, vale a dire un effetto di significazione - sia opportuno interrogarsi sul perché la prima seduta dovrebbe essere gratuita. 

Forse per incentivare a proseguire con le sedute dopo aver scoperto nella prima che qualcosa non va? E può sussistere e andare avanti una psicoterapia che non parta da un desiderio convinto e da una necessità avvertita e riconosciuta dal paziente a intraprendere un proprio percorso di cura senza essere indotto da facilitazioni "commerciali'"?

Ricordo, quando, ormai un bel po' di anni fa, iniziai la mia prima analisi, che la la scelta non mi fu per niente "fatta facile" dai vari psicoanalisti consultati (allora non era facile neanche trovarne di liberi) e che pagai sempre la mia prima consultazione e senza sconti.

Poter pagare anche la prima seduta non è un cappio, ma una condizione che mette il paziente nella più completa libertà di poter decidere "da solo", senza suggestioni e senza esserne influenzato, se continuare o meno.

Il denaro è un significante che riduce a zero ogni significante, per questo non è possibile nessuna terapia a titolo gratuito, neanche, e forse ancora meno, la prima seduta.

 Forse per questo mi capita di ritrovarmi molti pazienti in analisi provenienti da terapie interrotte e iniziate con la prima seduta gratuita.

SE L'ANALIZZANTE DICE, L'ANALISTA PARLA

C'è qualcosa di diverso fra parlare e dire. Una parola che fonda il fatto è un dire, ma la parola funziona anche quando non fonda nessun fatto. Quando ordina, quando prega, quando insulta, quando esprime un voto, non fonda nessun fatto." (J.Lacan)

In analisi quello che dice è solo l'analizzante in quanto costruisce fatti, i fatti che lui crede lo riguardino. Mentre è l'analista a parlare. L'analista non fonda, non monta, non costruisce fatti, difficilmente dice dicerie. L'analista parla: mette punti, stabilisce, argomenta, articola, ordina, dimostra, scandisce tempi. 

L'analista i fatti non li monta, li smonta, affinché possa condurre l'analizzante dal dire al parlare, dalla diceria alla parola

NON SO PIU' COSA IO CI VENGA A FARE QUI - Dal...

 - Dal seminario "la psicoanalisi e le altre psicoterapie" del ciclo "Conversazioni psicoanalitiche", 27 aprile 2018 a Salerno, in via Porta Elina 23 -


 Capita, durante il corso di un'analisi, che l'analizzante, prima o poi, arrivi finanche a dire, magari sbuffando, oppure manifestando perplessità o sconcerto: "non so più che ci vengo a fare qui", oppure: "non so più a cosa mi serve venire", o ancora "ma cosa ci vengo a fare?", e così via con espressioni similari. 


 In genere -è esperienza che abbiamo attraversato tutti- nel sentire tali espressioni, lo psicoanalista, soprattutto se inesperto, se ne preoccupa o, addirittura, se ne spaventa, pensando che il paziente stia manifestando sfiducia nel trattamento, o che stia comunicando di sentirlo ormai inutile, e che dunque ci stia dando il "preavviso" di una imminente interruzione. Per questo, in genere, l'analista sente di dover intervenire per metter riparo alla situazione e lo fa ricordando al paziente che egli sta lì per curarsi, oppure cerca di tranquillizzarlo dicendogli che ogni analisi, in fondo, può presentare momenti di questo tipo, che essi fanno parte della cura, eccetera.


 Per la verità il paziente sta più probabilmente avvertendo, attraverso queste espressioni, di ritrovarsi finalmente di più nel pieno della sua analisi, e nel pieno del transfert in quanto dispiegamento dell'inconscio soggettivo nella scena analitica, dispiegamento che, in quanto dell'inconscio, non può che essere avvertito come la caduta di ogni sapere precostituito, come situazione di non sapere dunque: "non so più perché vengo qui". 


 In altre parole il paziente si sta finalmente rendendo conto di non essere lì, in analisi, per i motivi e le finalità che credeva, ma per "altro", un "altro" di cui ancora non sa, ma di cui vorrebbe cominciare a sapere qualcosa.


 Per questo tali affermazioni solo apparentemente di sfiducia -al contrario di quello che sembrano voler dire- più che un preavviso di interruzione dell'analisi, sono in effetti espressione del desiderio di un suo rilancio.


 Una delle differenze allora tra una cura psicoanalitica vera e propria e qualsiasi altra psicoterapia è che le psicoterapie, al contrario dell'analisi, devono procedere evitando in ogni momento che il paziente possa perdere di vista il motivo e le finalità per cui sta seguendo quella determinata psicoterapia. Anzi, una psicoterapia è ritenuta tanto più attendibile, quanto più sia in grado di informare scrupolosamente il paziente circa finalità e obbiettivi del trattamento, come l'obbligo del cosiddetto "consenso informato" vuole sancire oggi anche sul piano giuridico.


 Un'analisi invece è tale perché porta il paziente a liberarsi di qualsiasi sapere precostituito e prestabilito, da egli stesso o ancor di più dall'Altro della cura, circa l'obbiettivo di salute da perseguire. 


 Un'analisi è ciò che permette ad un soggetto di arrivare a ritrovare la sua salute solo a partire dal suo vuoto di sapere, quel vuoto di sapere che un analista deve saper favorire. Il transfert non è altro che questo: la messa in atto della realtà psichica inconscia, la messa in atto del vuoto di sapere, come condizione da cui ripartire.


 Per questo ad affermazioni come quelle riportate un analista non potrebbe se non rispondere: "voilà, finalmente, ci siamo: siamo pronti per ripartire!"

LA PRATICA PSICOANALITICA 

Nell'epoca della "ipernormalizzazione", della infinita moltiplicazione di norme su tutto, e, in particolare, della normazione della salute mentale, la pratica analitica si distingue come l'unica che, al di là di ogni intento di ricondurre il soggetto sofferente nella propria psiche al canone di salute mentale prestabilito, lo restituisce piuttosto alla responsabilità etica di ritrovare la singolarità del proprio modo di stare bene e ad un saperci fare col proprio sintomo.

Da una intervista a Patricia Bosquin-Caroz:

"La pratica analitica si situa aldilà della norma che vale per tutti, aldilà delle norme moltiplicate senza sosta. Non propone al soggetto d’identificarsi all’uomo normale, non gli propone neppure di identificarsi a sé stesso. L’accompagna piuttosto a ritrovare il suo marchio singolare, rimosso, affinché possa districarsi il sintomo di cui soffre. Per questo, scommette sull’incontro incarnato con uno psicoanalista, per far avvenire l’incomparabile lettera intima di ciascuno. Offre uno spazio e un legame inedito su misura, che scommette sull’incontro dei corpi parlanti: il transfert. Non incoraggia il cinismo « a ciascuno il suo godimento », poiché la sua etica apre soprattutto sul ben dire che dà a ciascuno, da solo, la possibilità di reinventare, di riaggiustare o riannodare il suo legame all’Altro."

LA MACCHINA CHE LEGGE IL PENSIERO

"Lo studio solleva la possibilità che in futuro possa essere possibile visualizzare dal pensiero scene dai sogni di una persona o da ricordi che sono stati dimenticati"

Il tentativo di ridurre l'essere umano al suo cervello, giocando questa pseudo neuroscienza come un prestigiatore sul fatto che senza di esso è ovvio che nessun pensiero un essere umano potrebbe produrre, è come ridurre il viaggio di un'automobile al suo motore, solo perché senza un motore che funzioni nessun viaggio un'automobile potrebbe mai compiere. 

Voglio dire che credere che una RMN o una PET o anche un semplice EEG possano evidenziare, non solo che in quel momento probabilmente il soggetto stia pensando o sognando qualcosa, ma anche cosa egli stia pensando o sognando, sarebbe, né più né meno, come credere che un meccanico, ispezionando il motore, potesse dirci, non solo che l'automobile ha viaggiato, ma anche verso quale distinazione quell'automobile sia andata, quanti viaggiatori fossero a bordo e di cosa abbiano parlato durante il viaggio. 

Ora, se un meccanico sostenesse una cosa del genere, senza dubbio, chiunque chiamerebbe immediatamente il 118 per un ricovero urgente in psichiatria. Se invece è un neurofisiologo di una prestigiosa Università americana a sparare una cazzata analoga, e cioè che analizzando un cervello si possa capire anche cosa il proprietario del suddetto stia pensando, ecco che allora è la Scienza che fa prodigiosi passi avanti, e siamo a buon punto. Ma a buon punto di che? A ridurre l'essere umano ai suoi organi e i suoi organi a ingranaggi di una macchina?

Grazie ad ad Andrea De Leo per avermi dato l'occasione di notare questa "soperta!"

PERCHE' LE NEUROSCIENZE NON POSSO ESSERE IL FUTURO DELLA PSICOANALISI

Si sente dire spesso, anche da parte di molti psicoanalisti evidentemente timorosi che la psicoanalisi possa rivelare prima o poi la propria supposta "inconsistenza" rispetto invece alla "solidità" scientifica attribuita alle neuroscienze nell'ambito della cura della salute mentale, che il "futuro della psicoanalisi sia ormai nelle neuroscienze", vale a dire che saranno le neuroscienze il campo - scientificamente fondato - della ricerca, della comprensione e della cura dei disturbi mentali dell'essere umano.

E infatti, sembra che i cosiddetti disturbi dello spettro autistico del bambino siano ormai già considerati di indiscussa competenza delle neuroscienze e delle pratiche di terapia cognitivo-comportamentali alle neuroscienze sempre più prossime.

Non esiste invece, a mio avviso, previsione più fuorviante e improponibile: le neuroscienze non possono porsi in alcun modo come il futuro della psicoanalisi, se non altro perché la psicoanalisi va in una direzione che non può che - e proprio per lo statuto dell'inconscio di cui si occupa - eludere sistematicamente qualsiasi discorso scientista comprese appunto le neuroscienze.

Riporto a tal proposito una considerazione di Antonio Di Ciaccia: "l’inconscio non è da porre né all’insegna dell’ineffabile, né del trascendente, ma neppure all’insegna di quel qualcosa che non sappiamo ancora, ma che un giorno sapremo sia per le vie delle neuroscienze, sia per le vie di una presa di coscienza più approfondita di quanto è contenuto in un sacco chiamato inconscio."

L'inconscio non può essere infatti immaginato come quella sorta di   contenitore misterioso e oscuro dato una volta per tutte, in quanto l'inconscio della psicoanalisi è quel discorso che il soggetto pronuncia a sua insaputa: è quel sapere soggettivo su di sé che il soggetto però non sa di sapere, ma che gli fa segno del desiderio che lo abita.

La psicoanalisi si costituisce di conseguenza come quella pratica tale da poter consentire al soggetto il compito etico di prodursi, non come un Io in funzione secondo le leggi stabilite dalle neuroscienze, ma come soggetto singolare - fuori regola, fuori senso e imprevedibile -  del proprio desiderio.

Per questo, nel futuro della psicoanalisi vi è un'etica, quella del soggetto in quanto capace di prodursi come soggetto del proprio desiderio, e non una fisiologia neuronale, che vorrebbe che un individuo si riconosca in quanto fornito di un organo cerebrale e non abitato da un desiderio soggettivo che l'altro possa riconoscere e interpretare.

Il futuro della psicoanalisi è dunque etico e non scientifico, e in tal senso la psicoanalisi, in quanto clinica, ha il dovere, etico, di evitare, non di intercettare, le neuroscienze, benché con le stesse, come con tante altre discipline, ha anche il dovere di dialogare.


CONNESSIONI TRA PSICOANALISI E NEUROSCIENZE

Deve far riflettere che oggi -e proprio da una certa parte della comunità psicoanalitica- ci sia tanta voglia di stabilire "commessioni" tra psicoanalisi e neuroscienze -comnnessioni, non dialogo- laddove, come sappiamo, il sintomo psicoanalitico è in "disconnessione", non in "connessione" con il significante neuropsichiatrico.

Vale a dire che si vuole evidentemente tentare di ristabilire una connessione laddove "l'isterica", come sappiamo stabilisce una discomnnessione: quella che, riconoscendola, portò Freud alla scoperta del metodo della psicoanalisi.

Le neuroscienze dunque si dispongono "contro" l'isterica, e di conseguenza contro la psicoanalisi, tentandone in questo modo il superamento. Superamento impossibile perché la storia ci dice che in effetti le neuroscienze sono il passato e non il futuro della psicoanalisi: semmai è la psicoanalisi il futuro delle neuroscienze e non viceversa.

PERCHE' L'INCONSCIO NON PUO' AVERE UN SUO CORRISPETTIVO NEUROFISIOLOGICO.

Se è ovvio che senza il biologico non può esservi l'inconscio, non può esser ritenuto altrettanto ovvio che l'inconscio possa in qualche modo coincidervi, ridursi ad esso o trovarvi la base che ne permetta la dimostrazione.

Il biologico non può fornire in alcun modo la prova dell'esistenza dell'inconscio, e dunque non può neanche dimostrarne l'insussistenza, né tanto più sostituirvisi.

Perché? Perché l'inconscio, come dice Lacan, è etico, non ontico.

Vale a dire che l'inconscio non è una sostanza, un sacco, un serbatoio dove vanno a finire ricordi, traumi, oppure i desideri respinti dalla coscienza, cioè il rimosso, e che dunque come tale può avere un suo corrispettivo neuronale sottocorticale.

L'inconscio è una manifestazione dell'essere, un possibile diverso modo attraverso cui un soggetto parla e dice di sé in un modo "altro" rispetto al linguaggio condiviso, e per lo più attraverso un "vuoto", un "intoppo", un "mancamento" nella struttura del linguaggio.

L'inconscio è ciò che al linguaggio viene a mancare per essere detto in altro modo (sogno, lapsus, sintomo).

Dunque, il rapporto tra l'inconscio e la struttura neuronale è lo stesso che può esserci tra questa e il senso di un discorso: occorre un neurone perché si articoli la parola, ma quello che la parola vuol dire non lo si può trovare nel neurone, esattamente come il senso di un film trasmesso dalla televisione non lo si può trovare nella scheda video del televisore, che pure è indispensabile perché quel film possa essere trasmesso e offerto alla visione dello spettatore.

Analogamente, se l'inconscio è ciò che viene detto in altro modo, o ciò che al linguaggio viene a mancare, questo "inceppo" del discorso non può essere attribuito ad una presunta "disfunzione" del neurone, esattamente come quello che un film vuole dire, oppure ad esempio il senso della l'inserzione, nella sua trama, di un flashback, non lo si trova in un difetto della scheda video, ma nelle intenzioni del regista.

Ecco, i neuro-cognitivi vorrebbero sdoganare un errore logico di questo genere: pretendere di trovare nel neurone le intenzioni di senso che un soggetto esprime o fa mancare nel modo di mettere in parola il proprio discorso.

In altri termini, l'inconscio non sussiste se non attraverso quel dire - le libere associazioni - che un soggetto, in analisi e sotto transfert, indirizza al proprio analista, in analisi dunque, che per questo è il solo luogo in cui l'inconscio può trovare la propria dimostrazione.

"QUESTI FARMACI DEVE PRENDERLI PER TUTTA LA VITA!"

Se può essere anche opportuno che uno psichiatra somministri degli psicofarmaci per aiutare qualcuno a fronteggiare una crisi acuta del momento, è invece del tutto criminale se alla domanda: "dottore, ma per quanto tempo devo prendere queste medicine?" lo stesso psichiatra risponde: "caro mio per tutta la vita!"

Rispondere in questo modo è criminale perché in primo luogo si tratta di una risposta del tutto insensata. Su che base infatti ci si può sentire nel diritto di condannare uno che già soffre per conto suo, e ancor prima di capire come si metteranno le cose, ad una intossicazione chimica a vita? 

Può uno psichiatra essere nel dirittto di ignorare che, come spesso accade, dietro una domanda del genere si cela il desiderio di un aiuto di tipo diverso da quello farmacologico? 

Può uno psichatra ignorare che i farmaci svolgono esclusivamente un'azione sintomatica che può essere giustificata solo per gestire una situazione acuta e non certo come cura delle cause e in tempi lunghi? 

Ha uno psichiatra il diritto di ignorare e di non informare un paziente che esistono anche le psicoterapie? Tanto più che gli psichiatri oggi - di diritto e senza nessuna verifica circa il saperne o meno qualcosa sull'argomento - sono di fatto inseriti anche negli elenchi degli psicoterapeuti presso i loro Ordini professionali.

Come è possibile che uno psichiatra, se da una parte accetta un tale inserimento che ipso facto lo abilita ad una pratica, dall'altra la misconosca per prescrivere unicamente quella della psicofarmacologia?

Poi ci lamentiamo che mancano pazienti per le psicoterapie e per la psicoanalisi.

La verità è che manca piuttosto un sapere sulla psicoterapia e sulla psicoanalisi tra molti psichiatri, pur "regolarmente" inseriti negli elenchi degli psicoterapeuti.

 Non è la domanda di psicoanalisi che manca da parte dei pazienti, mancano piuttosto gli psicoanalisti in grado di raccoglierla e di rispondervi adeguatamente.

SAPERE PSICHIATRICO E SAPERE PSICOANALITICO.

Qual è la differenza tra il sapere della psichiatria e quello della psicoanalisi? La differenza consiste nel fatto che, mentre il sapere della psichiatria è quello che proviene dalla diagnosi, quello della psicoanalisi proviene dal transfert, poiché, come nota Eric Laurent, in psicoanalisi, lo strumento epistemologico è il transfert, non la diagnosi.

UNO PSICOANALISTA NON TOLLERA TERZI

Dice Salomon Renik:

"Il trattamento della follia rimane una grande tragedia. Intanto, c' è pochissima gente motivata e con una buona formazione, capace di entrare davvero in contatto con il paziente. E poi - quel che è peggio - raramente le équipes sono affiatate. La nostra è una società molto competitiva, e la nostra professione lo è estremamente. Il paziente, già dissociato, coglie la mancanza di collaborazione tra il terapeuta che utilizza strumenti analitici, quello che prescrive manciate di farmaci, l' infermiere frustrato... E' una percezione che rende il malato ancora più ammalato..."

Una valutazione "ottimistica". Lavoravo come psichiatra dirigente in una ASL della provincia di Salerno dove tentai di metter su un Servizio di psicoterapia ad orientamento psicoanalitico: non si trattò di non avere la collaborazione, di più: fui oggetto di un sistematico, pianificato, preciso, organizzato boicottaggio senza esclusione di colpi. Lo psicotico poteva essere trattato soltanto secondo il modello manicomiale aggiornato alla nuova legge: alternanza di dosi massicce di psicofarmaci con ricoveri in regime di TSO. In molti Servizi pubblici di ( si fa per dire) salute mentale, come quello, che uno psichiatra si metta a fare lo psicoanalista, a osservare, pensare, soprattutto, ascoltare come uno psicoanalista è considerato un tradimento insopportabile per la categoria. Se sei psicologo, ancora, ancora, sei tollerato e finanche utile: "quattro chiacchiere" con lo psicotico, tra un intervento serio e un altro con lo psichiatra - che lui sì che ne capisce di matti! - le puoi sempre fare, ma come psichiatra! Che fai? Perdi tempo ad ascoltare l'inascoltabile, a decifrare l'indecifrabile? Non ho mai ricevuto tanti caffè dagli infermieri come quando ero impegnato in una psicoterapia, nel chiuso dello studio medico con il mio paziente; una bella scusa per entrare, dare un'occhiata furtiva (ma che si diranno mai questi?). Incubi da scena primaria! Né ricordo di aver ricevute tante chiamate dal pronto soccorso mentre ero in psicoterapia! Decisi allora di fare l'unica cosa che la mia etica poteva consentirmi: lasciare il Servizio Pubblico (sono uno dei pochi psichiatri psicoanalisti ad essersi dimesso volontariamente da un Servizio Pubblico per praticare la psicoanalisi in privato) e di dedicarmi alla psicoterapia e alla psicoanalisi nell'unico posto possibile: il mio studio privato. Ora seguo molti psicotici che non prendono più farmaci e lavoro come psicoanalista a tempo pieno. Da venticinque anni!


UNA DIFFERENZA

Una delle differenze tra una cura psicoanalitica vera e propria e qualsiasi altra psicoterapia è che le psicoterapie, al contrario dell'analisi, devono procedere evitando in ogni momento che il paziente possa perdere di vista il motivo e le finalità per cui sta seguendo quella determinata psicoterapia. Anzi, una psicoterapia è ritenuta tanto più attendibile, quanto più sia in grado, non solo di correttamente informare il paziente circa finalità e obbiettivi del trattamento, come l'obbligo del cosiddetto "consenso informato" del resto oggi sancisce anche sul piano giuridico, ma soprattutto di condurlo al risultato di salute mentale previsto.

Un'analisi invece è tale perché porta il paziente a liberarsi di qualsiasi sapere da egli stesso, o ancor di più dall'Altro della cura, precostituito e prestabilito, circa l'obbiettivo di salute da perseguire. Anzi, è esperienza di ogni analisi riuscita che ciò che si persegue, ciò che alla fine si ottiene non è mai quello che si pensava all'inizio del trattamento, ma sempre qualcosa di non previsto, di inedito. L'analisi non è una cura che restituisca una salute perduta nei modi di come la si possa presupporre, ma un'esperienza che conduce sempre a qualcosa di nuovo e di inatteso.

Un'analisi è allora che permette ad un soggetto di arrivare a ritrovare la propria a salute solo a partire da un "vuoto di sapere" su ciò che avverrà, quel vuoto di sapere che un analista deve essere in grado di favorire, proteggere ed evitare - assolutamente - di saturare, giacché il transfert non è altro che questo: la messa in atto della realtà psichica inconscia, la messa in atto del vuoto di sapere, come condizione da cui ripartire.

LA LOGICA BINARIA DELLA PSICOANALISI

Se per le discipline scientifiche che pongono l'uomo come oggetto di ricerca e di studio, per le scienze umanistiche, e per le religioni, il soggetto coincide e si riduce alla sua coscienza, che lo rappresenta, per la psicoanalisi il soggetto non coincide con essa, non è nelle sue manifestazioni, né in ciò che egli mostra di sé, né tanto meno in quello che dice, poiché egli è sempre altrove rispetto a quello che manifesta anche a sé stesso e rispetto a quello che presume di essere.

Il soggetto, per la psicoanalisi, è il soggetto dell'inconscio, in quanto è nell'inconscio ciò che lo struttura in quanto tale, vale adire il suo desiderio. 

E' dal luogo dell'inconscio dunque, e non da quello della coscienza, che il soggetto parla al di là di quello che dice, ed è dall'inconscio che egli "s'offre" (giocando sull'omofonia del termine, sia nel senso di "offrirsi", sia nel senso di "soffrire"). 

Per questo, la psicoanalisi non può essere compresa se non all'interno della logica binaria che la costituisce, che ne determina l'effetto di sorpresa, e che la distingue da tutte le altre discipline che, al contrario, si fondano sulla logica unitaria che "confonde" - non distingue - il soggetto con la sua coscienza.


TERAPIE ON LINE

E' significativo come nell'articolo non si prenda minimamente in considerazione il fatto che nelle terapie online quello che viene escluso è il corpo.

E' interessante che nell'esempio riportato, tratto da un film, e che dimostra come sia impossibile una relazione che non apra anche ad uno spiraglio per uno scambio "corporeo", venga utilizzato invece come conferma della efficacia di una terapia on line:

"Una notte, la donna si sveglia di soprassalto. Ha avuto un incubo. Sta respirando affannosamente quando, dall'alto, dal buco, scende il braccio dell'uomo del piano di sopra. Le porge un bicchiere d'acqua. Poi la tira su piano, facendola passare attraverso l'apertura: è il momento del contatto e dell'incontro. Potremmo leggere questa scena come una rappresentazione poetica dei “now moments” descritti dallo psicoanalista Daniel Stern: momenti speciali in cui tra paziente e terapeuta si crea una connessione particolare, conscia e inconscia, che determina un cambiamento terapeutico. Si tratta di un contatto tra i due Sé, autentico e profondo."

Non sono due Sé (il Sé è una concettualizzazione della soggettività dell'ordine dell'immaginario) che si incontrano, ma, come del resto è chiaramente descritto nella scena, due corpi che entrano in relazione, in una relazione di parola mediata dai corpi. Quello che le terapie online escludono è il corpo, eppure sappiamo che non può esservi psicoanalisi se non mediante il proprio corpo, come le isteriche hanno insegnato a Freud, mettendolo sulla strada della psicoanalisi.

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