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La psicoanalisi oggi

Articolo per il giornale Salerno Sera diretto da Andrea Manzi

La psicoanalisi è una cura perché parte sempre da una sofferenza. Non vi può essere analisi se non vi è una sofferenza che il soggetto avverta come propria. Cosa significa? Significa che il soggetto deve avvertire la sua sofferenza in termini di sintomo. È solo in questo caso che può avviarsi un’analisi. Non vi può essere nessuna analisi se non a partire da un sintomo. Per questo noi diciamo che un sintomo serve, serve a potersi curare, serve a poter guarire.

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    Per dirla in altro modo, un’analisi parte sempre da una domanda soggettiva: per questo occorre che ci sia un sintomo. Il sintomo psicoanalitico è infatti una domanda, la domanda vera e propria, in quanto interroga il soggetto e al tempo stesso segnala qualcosa che non va. Una domanda, inoltre, è sempre rivolta a un altro, un altro che si suppone conosca la risposta. Per questo Lacan ha descritto l’analista, che è sempre il destinatario di una domanda, come il Soggetto Supposto Sapere, il soggetto cioè che il paziente suppone che sappia dare la risposta giusta alla sua domanda.


    Il sintomo è dunque essenzialmente una domanda. Ma il sintomo è anche ciò che dice qualcosa del paziente, e lo dice a sua insaputa, in quanto egli non sa niente di cosa voglia dire, non sa cosa significhi, anche se sa – e lo sa sempre anche quando crede di non saperlo – che in effetti vuole dire qualcosa di lui. Per questo il paziente tende a parlare molto, e volentieri, del proprio sintomo. In altri termini, il sintomo è anche un discorso: il discorso del paziente, il discorso che il paziente fa di sé stesso. "Il sintomo è un discorso, per questo lo ascoltiamo". Ecco, il sintomo, per la psicoanalisi, si ascolta, non si constata, né si osserva, come è invece per la psichiatria classica.


    Paradossalmente il sintomo è al tempo stesso quanto di più estraneo e di più intimo ci possa essere. Estraneo perché del proprio sintomo il paziente ne sa molto poco a livello cosciente, e spesso gli appare del tutto incomprensibile, strano, bizzarro addirittura: sono costretto a lavarmi le mani in continuazione; non posso uscire di casa se non controllo prima un’infinità di volte di aver chiuso bene il gas; ho una paura terribile di rimanere nel traffico; non riesco a prendere l’ascensore eccetera, per limitarsi solo ad alcune delle manifestazioni sintomatiche più frequenti e che risultano alla percezione del paziente del tutto oscure e immotivate. 

    Al tempo stesso, dicevamo, il sintomo si ricollega a quanto di più intimo e soggettivo ci possa essere, in quanto esso non è mai casuale, ma in effetti dice  ciò che il paziente porta dentro di sé come un segreto. Il sintomo dunque è un discorso cifrato, un discorso enigmatico, ma, in quanto tale, il vero discorso, il discorso che non mente. Il sintomo inganna, ma non mente, perché, anzi, dice qualcosa della verità soggettiva del paziente. Una verità soggettiva di cui il paziente non può dire in altro modo se non mediante il sintomo, e dunque, se il sintomo dice del paziente, allora non può che essere ascoltato: “il sintomo è un discorso, per questo lo ascoltiamo” ha detto senza mezzi termini Lacan.

La psicoanalisi ci salverà:
Intervista a Egidio T. Errico

di Anna Fata Scrittrice, Presidente ArmoniaBenessere 

La società in cui viviamo oggi è sempre più complessa. Grazie anche alle recenti scoperte in ambito scientifico, alle evoluzioni delle nuove tecnologie di comunicazione e condivisione, l’impatto che ne deriva a livello umano, individuale e sociale è molto forte e soprattutto veloce. 

Nell’osservare usi, misusi e abusi delle possibilità di cui disponiamo oggi per certi versi sembra che non siamo pronti ad evolvere così rapidamente, come se qualcosa di noi fosse rimasto in parte indietro.

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     I tempi del mondo interiore non sempre riescono a stare al passo con quello esterno. Questa disparità non è priva di conseguenze, a volte anche faticose e dolorose. Oggi, paradossalmente, i vissuti di solitudine, di isolamento, ansia, depressione, ad esempio, sono in aumento, nonostante le crescenti possibilità che abbiamo a disposizione per essere in connessione e comunicare. Molti di noi avrebbero tanto bisogno di essere aiutati ad affrontare le piccole e grandi sfide della vita quotidiana, ma faticano a chiedere o, al limite, neppure sono consapevoli del proprio bisogno. Come porre fine a questa dolorosa e forse anche pericolosa deriva sociale e individuale? Quali strumenti ci potrebbero aiutare? A chi potremmo rivolgerci per superare quello che si configura a tutti gli effetti come un profondo male di vivere?  Abbiamo parlato di questo e molto altro con Egidio T. Errico, psichiatra, psicoterapeuta e psicoanalista. Socio della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP), della European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy e della National Association for the Advancement of Psychoanalysis (NAAP). Esercita nel suo studio a Salerno.


    D: Che cosa è la psicoanalisi e in cosa differisce rispetto alla psicologia e alla psicoterapia?


    R: Lacan, a cui fu rivolta la stessa domanda, definì, con il suo solito stile apparentemente provocatorio ed enigmatico, la psicoanalisi come “ciò che praticano gli psicoanalisti” e gli psicoanalisti come “coloro che praticano la psicoanalisi”, volendo con questo dire, da una parte, che la psicoanalisi in effetti, per l’oggetto stesso di cui si occupa, non può che sfuggire ad ogni definizione che sia data una volta per tutte, che sia cioè circoscrivibile in un concetto compiuto, e, dall’altra, sottolineare che essa è essenzialmente una prassi, una pratica che, in quanto tale, non può considerarsi, a differenza delle altre discipline, come esistente per se stessa, come esistente cioè a prescindere di chi la richiede (il paziente) e di chi la pratica (gli psicoanalisti). 


    Questo perché la psicoanalisi, anche se oggi può essere indubbiamente riconosciuta come un metodo preciso di cura del disagio psichico, e dunque come una teoria del funzionamento della mente e dei suoi disturbi – il che impedisce che essa possa essere considerata una pratica terapeutica improvvisata – si configura al tempo stesso come una cura che risponde unicamente a chi la richiede, che si costituisce cioè come una risposta ad una interrogazione soggettiva, con ciò intendendo che si tratta di una cura che può essere messa in funzione solo dalla domanda del paziente che, stando male e rivolgendosi ad un psicoanalista, si chiede sul suo sintomo, si chiede, e chiede, cioè cosa esso voglia dire.


    Uno psicoanalista è allora chi è in grado di accogliere la domanda del paziente su se stesso, e di intenderla come il suo desiderio di saperne di più, senza ritenere che possegga lui, in quanto dottore, la risposta che il suo paziente cerca. In altri termini, è il paziente, e solo questi, che, con la sua domanda di cura, può mettere in funzione la psicoanalisi in quanto cura, e anche lo psicoanalista in quanto colui che la dirige.


    In sintesi allora possiamo intendere la psicoanalisi come quella particolare pratica terapeutica messa in funzione dalla domanda del paziente che, stando male, vuole saperne qualcosa di ciò che non conosce, vale a dire del suo inconscio, per cui essa si costituisce come ascolto di un soggetto di cui, pur conoscendo le leggi che regolano il suo inconscio, sa di non saperne nulla circa e il desiderio che lo abita. È proprio in questo non sapere nulla del paziente che consiste non solo la qualità della cura psicoanalitica, ma anche la specificità della sua azione. Ma è anche in questo – per venire alla seconda parte della sua domanda – che la psicoanalisi si differenzia dalla psicologia e da tutte le altre psicoterapie conosciute. 


    Cerchiamo di vedere più dettagliatamente tali differenze.


    Le psicoterapie rispondono alla logica del “mettere a posto quello che non va” e promettono la guarigione dai sintomi. Sono dunque in linea con l’esigenza del soggetto della post-modernità di essere immediatamente e del tutto restituito – non appena avverta quel “qualcosa che non va” alla normalità intesa come funzionamento senza inceppi. Le psicoterapie alimentano dunque l’illusione che sia possibile correggere qualsiasi allontanamento da questa idea di normalità. 


    Lacan afferma a questo proposito che la più efficace delle terapie in questo senso, la vera cura di quello che non va, è la religione, che promette infatti la via della salvezza e la soluzione di tutti i mali del mondo. Il suo compito è quello di “acquietare i cuori, di dare un senso a qualunque cosa. Per esempio alla vita umana”.


    La psicoanalisi invece no. La psicoanalisi non promette risultati “miracolosi” di guarigione da tutto quello che non va, come se “quello che non va” fosse una malattia da cui guarire. La psicoanalisi non si propone di “mettere tutto a posto”, che non sarebbe neanche possibile, dal momento che invece “c’è sempre qualcosa che non è a posto“, qualcosa che proprio non vuole saperne di mettersi al posto che vorremmo assegnargli. La psicoanalisi permette però di potersi rendere conto che è proprio lì, in ciò che non va a posto, che risiede il soggetto vero, il soggetto del proprio desiderio, singolare, e irriducibile a qualsiasi tentativo di “metterlo a posto” una volta per tutte. Perché il desiderio che dovesse trovare la sua “sistemazione” definitiva, il suo posto stabilito dove mettersi comodo, cesserebbe di essere desiderio e diventerebbe una gabbia. In questo senso la psicoanalisi sta tutta dalla parte della singolarità del desiderio umano, e del diritto del soggetto di poter esprimere, nella Civiltà in cui vive, il suo modo di esservi non del tutto a posto, di esprimere il suo personale “disagio della Civiltà”. La psicoanalisi dunque non guarisce dal “disagio della Civiltà”, ma fa di questo disagio uno strumento, una risorsa per vivere, ne fa la fonte dell’atto creativo del soggetto e anche il suo “marchio“, la “firma” attraverso cui egli sottoscrive il suo modo di essere e di stare al mondo. 


    D: A chi consiglierebbe di effettuare un percorso di psicoanalisi?


    R: La risposta a questa domanda si può desumere da quella precedente. Abbiamo detto che la psicoanalisi sussiste solo in quanto risposta ad una domanda, e dunque, dal momento che nessuna domanda può essere prescritta in quanto una domanda è ciò che sgorga da un desiderio soggettivo, la psicoanalisi non è qualcosa che può essere prescritta. Anzi la questione andrebbe capovolta, nel senso che dovremmo piuttosto chiederci: a chi un paziente può “prescrivere” una psicoanalisi? Ovviamente non a tutti, ma – come abbiamo già detto – solo a chi, in quanto psicoanalista, è in grado di accogliere la domanda del paziente su se stesso, e di intenderla come il suo desiderio di saperne di più, senza ritenere che possegga lui, in quanto psicoanalista, la risposta che il suo paziente cerca. Da questo punto di vista possiamo dire che la psicoanalisi si impianta come un percorso, un procedimento di cura, che non è mai corrispondente a ciò che viene “prescritto”, che è cioè sempre la sovversione di qualsiasi atto prescrittivo, soprattutto se avviene secondo la logica della prescrizione medica. Al punto che la psicoanalisi stessa è nata come atto sovversivo di una prescrizione terapeutica. Freud, infatti, come si sa, tentava di curare le isteriche “prescrivendo” loro il metodo ipnotico, fin quando una di esse, Emmy von N., che rifiutando la prescrizione di dire solo sotto ipnosi, e dunque di dire quello che il terapeuta si aspettava, volle invece ella “prescrivere” a Freud di ascoltarla in quello che lei liberamente aveva da dire, e non sotto ipnosi, ma sotto qualcosa di natura ben diversa: il desiderio di dire di sé a qualcuno in grado di ascoltare, e che Freud riconobbe e chiamò successivamente “transfert”. Dunque la psicoanalisi non può essere prescritta come atto medico, in quanto la psicoanalisi può essere solo ciò a cui porta il desiderio convinto del paziente, un desiderio che, come ogni desiderio, si sottrae a qualsiasi atto prescrittivo.


    D: A chi obietta che la psicoanalisi è un percorso lungo, costoso, spesso inefficace, che cosa si sente di ribattere?


    R: Mi sento di rispondere che tale affermazione non corrisponde al vero, almeno non corrisponde ad una verità costruita secondo la logica di un tempo cronologico e stabilito in base ai criteri imposti dal discorso dominante. Il discorso dominante, direbbe Lacan, in quanto discorso del Capitalista che impone oggi che tutto si debba, e si possa, reperire nell’immediato, con successo e senza alcuna perdita di tempo, anche la salute, anche la salute mentale, concepita qui come un bene fornito dalla scienza, e facilmente acquistabile da tutti e allo stesso modo, in quanto prodotto preconfezionato, cioè prestabilito. Ma questa è una illusione puramente immaginaria e che fa leva sul bisogno di credere che si possa riottenere la propria salute, anche quella mentale, così, passivamente, semplicemente attraverso una pillola e dunque senza alcun lavoro su di sé e senza alcun impegno soggettivo. La verità è che le cure apportate dai farmaci, o dalle cosiddette terapie brevi, sono cure sintomatiche e parziali, e dunque, in prospettiva, cure che fanno perdere tempo e soldi di gran lunga più consistenti del tempo che serve ad un soggetto per rivedere, seriamente e concretamente, le sue cose con uno psicoanalista. Non è dunque la psicoanalisi, come si vorrebbe far credere che fa perdere tempo e soldi, ma tutte quelle terapie che promettono risultati in tempi così brevi da non poter permettere nessun cambiamento vero, e utile, per un paziente la cui sofferenza proviene da quelle zone dell’essere cui nessuna terapia breve e dell’immediatezza può neanche lontanamente pensare di andarvi a fare veramente i conti.


    D: Lacan spesso parlava di etica della psicoanalisi. In questo concetto faceva rientrare anche la possibilità, per chi lo desiderasse, ma non fosse nelle condizioni economiche, di poter accedere al percorso psicoanalitico a prezzi molto bassi o addirittura gratuitamente, come lui stesso pare che abbia più volte fatto. Secondo lei, considerato il grande disagio sociale e individuale presente oggi, se e come sarebbe possibile declinare questa possibilità?


    R: Non credo che Lacan abbia mai fatto delle analisi “gratuite” una regola o una questione di etica. Al contrario l’etica della psicoanalisi non permette che si possa consentire una cura che, rinunciando al giusto onorario da corrispondere all’analista, rischiasse di scivolare in una dimensione fortemente ambigua della relazione che si stabilisce tra un paziente ed il suo analista. Noi sappiamo che la cura analitica avviene sotto transfert, ma sappiamo anche che questo transfert non può mai sfociare in una erotizzazione agita, anche solo virtualmente, sulla figura reale dell’analista, ma deve rimanere entro i confini del registro simbolico, confini che sono garantiti proprio dal denaro, cioè dal sapere che l’analista viene pagato per il fatto di funzionare come analista. In altre parole, il denaro che viene corrisposto ad un analista (ma questo vale per qualsiasi altra figura professionale) non vale mai soltanto per il suo valore in sé in quanto moneta, ma anche per il suo valore simbolico, essendo quel “significante che riduce a zero ogni altro significante”. Cosa vuol dire? Vuol dire che il denaro è una potente barriera al godimento, che riporta a zero il godimento messo in movimento, sia pure non agito, durante la seduta. Il denaro è dunque una garanzia, per il paziente, che la sua analisi rimanga analisi e possa continuare come tale, senza che rischi di sfocare in altro, tant’è che lo stesso Lacan si pronuncia chiaramente a tale proposito: 


    “Il denaro non serve solo per acquistare oggetti, ma che i prezzi che, nella nostra civiltà, sono calcolati con maggiore precisione possibile, hanno la funzione di smorzare qualcosa di infinitamente più pericoloso del pagare in moneta, che è il dovere qualcosa a qualcuno.” (Il Seminario, Libro II, L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-55, pag.234). 


    Cosa ben diversa è quella invece di stabilire il proprio onorario anche sulla base delle possibilità economiche di ciascun paziente.


    D: Che cosa implica postulare l’esistenza dell’inconscio nelle manifestazioni individuali e sociali che possiamo osservare in noi stessi, negli altri, nel mondo? 


    R: Implica riconoscere che l’essere umano non si riduce mai a se stesso, inteso come il se stesso che egli ritiene di conoscere, e che è invece solo il frutto delle sue identificazioni, a cominciare da quella prima identificazione con l’immagine di sé che vede riflessa nello specchio, e continuando, via via, con le immagini di lui che gli vengono man mano rimandate dai genitori, dai parenti, dagli amici, dai professori, dagli altri insomma, finanche dai terapeuti, o anche dalla scienza e dalla religione, dall’Altro, per dirla in breve. Postulare l’inconscio significa riconoscere che al di là di quello che di noi ci appare e che riconosciamo coscientemente, ma anche al di là del ruolo simbolico che occupiamo nel mondo in cui viviamo, a cominciare dal nome con cui ci presentiamo e veniamo chiamati, esiste un essere di noi che a noi sfugge, che si nasconde, che non entra nel linguaggio condiviso e nella coscienza così come appare, ma che vive e ci determina e che è la fonte di ogni nostro discorso: questo soggetto che noi siamo e a noi ignoto è il soggetto del nostro desiderio, desiderio che rimane per questo sempre sottratto alla presa della parola, della coscienza e anche del nostro immaginario stesso, ma che a noi si manifesta attraverso la percezione di una mancanza. Ecco, postulare l’inconscio significa riconoscere che non siamo soggetti pieni, ma che siamo invece soggetti “mancanti”, e che la nostra mancanza è la struttura stessa del nostro desiderio e della nostra vita vera. Postulare l’inconscio significa gettare le basi che servono per salvaguardare e protegge il nostro desiderio che è sempre soggettivo, singolare e di ciascun essere umano, uno ad uno considerato. 


    D: Tra le numerose manifestazioni di disagio che sul piano individuale e sociale oggi possiamo osservare vi sono molteplici episodi di violenza, fisica, morale, psicologica. Se e in che modo la violenza sociale può influire su quella individuale e viceversa, ma soprattutto, cosa possiamo fare per porre fine a questo circuito di auto ed etero distruzione?


    R: A mio avviso il ricorso sempre maggiore alla violenza è proprio la conseguenza del tentativo sempre più diffuso, a livello non solo dei singoli, ma anche della collettività e della egemonia crescente di una cultura sempre più tecnicista, di abolire il postulato dell’inconscio e dunque di abolire l’esistenza stessa del desiderio umano come istanza irripetibile e irriducibile della soggettività di ciascuno. Una cultura che tende a negare l’inconscio, e dunque a riconoscere che ogni soggetto è soggetto anche di desiderio e non solo un soggetto che debba riconoscersi nei canoni dell’efficientismo prestabilito, abolisce anche la logica dell’ascolto soggettivo di ciò che in ciascuno non va, per imporre quella del funzionamento di tutti allo stesso modo. Tale logica sbarra sempre più l’accesso alla parola come luogo che possa accogliere una domanda di aiuto, un’istanza problematica, un appello all’Altro. La violenza allora può costituirsi come unico modo per comunicare un proprio disagio avvertito sempre più come ciò che non può essere messo in parola, ma come ciò che può solo imporsi sotto forma di agiti dirompenti e tesi a distruggere le ragioni si se stessi e degli altri. Ma il tentativo di abolire il desiderio significa anche far cadere una efficace difesa nei confronti del godimento. Dove non si può accedere al proprio desiderio è il godimento come imperativo senza limiti a prendere il sopravvento, vale a dire la necessità irrefrenabile di agire le proprie istanze sotto forma di pulsioni che impongono unicamente la loro scarica, e dunque assurgendo a movimenti incontrollati di pura distruttività fine e se stessa. 


    D: Un’altra manifestazione particolarmente evidente sul piano individuale, familiare, sociale, è l’affievolimento delle figure che rappresentano l’autorità. Le figure autorevoli sono poche e in molti casi scarsamente rispettate. Cosa si cela dietro questa mancanza di riconoscimento e rispetto dell’autorità e cosa possiamo fare per recuperarla? 


    R: Sono i genitori le prime figure autorevoli con le quali un bambino si trova a doversi confrontare. Per la verità però, i genitori come autorità sono figure che subentrano solo in un secondo tempo, essendo precedute dai genitori dell’accudimento e della risposta ai bisogni, funzioni queste che, come sappiamo, sono soprattutto, anche se non necessariamente, della madre, come quella dell’autorevolezza è una finzione soprattutto, anche se non necessariamente, del padre, ma non tanto del padre generativo in quanto tale, del padre reale, in carne e ossa, ma del padre simbolico, intendendo con ciò una funzione che può essere assunta dalla madre stessa, o da qualsiasi altra figura si trovi ad occupare il posto del padre. Va anche detto che tale funzione del padre simbolico, non è affatto scontata, in quanto è una funzione messa in funzione, permessa cioè, dalla madre stessa attraverso due momenti: uno è quello che prevede la disponibilità di una madre a staccarsi progressivamente dal proprio bambino, l’altra è quella, per come dire, di “presentare” un padre al proprio bambino, cioè di introdurlo come “figura terza”, nello scenario relazionale col proprio bambino che di per sé è uno scenario di relazione “duale” (madre e bambino) e che tale rimarrebbe se non venisse introdotta la figura paterna, tale da permettere il passaggio della relazione da duale (madre-bambino) a triadica (madre-padre-bambino). Anche se, come abbiamo detto, è proprio la madre a permettere l’introduzione del padre nello scenario duale della sua relazione col bambino, e dunque a mettere in funzione il padre simbolico, va anche detto però che tanto più la madre può riuscire in questo, quanto più il padre vero e proprio (generativo o meno che sia), vale a dire il padre che occupa quel posto di partner della madre, sia in grado di motivare la madre del bambino a questa operazione, sia in grado cioè a sua volta di causare il desiderio della madre verso altro rispetto al suo bambino. Tale processo prende il nome, in psicoanalisi, di “castrazione”, ed è ciò che permette dunque l’instaurarsi presso il bambino, e la sua mamma, della funzione paterna come funzione autorevole, vale a dire come figura della Legge. Ma di quale legge si tratta? Della legge simbolica che stabilisce cosa si può fare e cosa non si può fare. Ora la prima cosa che non si può fare è che la madre e il bambino continuino a essere ciascuno il desiderio assoluto e unico dell’altra. Da ciò se ne deduce che se, come sembra accadere oggi, si scoraggia il processo di riconoscimento di una figura terza come figura che garantisca la legge simbolica che vieta l’incesto come paradigma che tutto si può desiderare e tutto si può fare, che scoraggia cioè la “castrazione”, questa acquisizione cioè della legge che non tutto si può desiderare e che non tutto si può fare – e lo si scoraggia proprio perché prevale una cultura del capitalismo che ha interesse a trasmettere che invece tutto si può fare e tutto si può avere, allora è chiaro che la figura paterna, la figura o le figure dell’autorevolezza tenderanno oggi a diluirsi, a rendersi evanescenti o poco efficaci, con la conseguenza, come vediamo, del prevalere di una cultura del tutto e subito, in cui il desiderio lascia sempre di più posto al godimento e con il rischio – come abbiamo già visto – di soluzioni violente al minimo sentore che forse non è poi tanto vero che si possa effettivamente fare e desiderare tutto quello che si vuole. Ritengo che oggi, sia proprio la psicoanalisi a fornire una risposta, e anche delle possibili soluzioni a queste “condizioni senza padre”, condizioni che sono alla base di esistenze disperate e contrassegnate da disturbi che vanno dagli attacchi di panico, fino alle psicosi, le quali, come ha dimostrato Lacan, sono proprio la conseguenza della “forclusione” del Nome-del-Padre. 


    La psicoanalisi infatti, ponendosi come quella dimensione che cura sottraendosi alla logica del tutto e subito, è l’unica terapia in grado di rimettere in moto il dispositivo dell’inconscio come luogo possibile di elaborazione terza rispetto alla risposta immediata e senza margini alle richieste pressanti delle pulsioni, e dunque il possibile ancoraggio del soggetto alla Legge simbolica del Padre, che in quanto tale ristabilisce la supremazia dell’etica del desiderio sull’imperativo del godimento


    D: La questione dell’autorità rimanda inevitabilmente ad contesto familiare in cui sembra che molto spesso pare che vi sia un rapporto amicale tra genitori e figli più che genitoriale. Questo apre le porte ad una carenza di punti di riferimento solidi, a valori, principi e pratiche di vita che sanciscono un limite, un orientamento, una possibilità. Dove ci potrà portare questa condizione e soprattutto se e come si può superare questa situazione? 


    R: Anche questa situazione può essere vista come una conseguenza, all’interno della famiglia stessa, di quello che dicevamo prima, vale a dire di questa evanescenza della figura del padre e della sua autorevolezza, del Nome-del-Padre, come Lacan chiama tale funzione. Evanescenza che è l’effetto di una castrazione che sempre più non riesce a compiersi. Il Nome-del-Padre non garantisce solo la legge del desiderio su quella del godimento, ma garantisce soprattutto il limite (e d’altra parte il desiderio si avvale del senso del limite, per poter essere, e quella del desiderio è un’etica del limite). Questo limite, questo senso del limite è ciò che oggi manca, ma che invece serve. Serve a mettere un argine tra l’area genitoriale e quella dei figli, ma anche a stabilire l’argine tra le persone e ad evitare che l’identità dell’uno sfoci in quella dell’altro. Serve a limitare a lasciarsi andare a tutto, a pensare di poter essere tutto e anche, cosa molto importante, a favorire la sessuazione, cioè a capire, ognuno, da quale parte disporsi, se dal lato maschile o da quello femminile, della differenza di genere. Il senso del limite serve a capire quando qualcosa deve trovare il suo punto d’arresto (il “punto di capitone”, diceva Lacan) e di conseguenza a rispettare l’Altro come altro da sé, piuttosto che esigerlo come altro di sé, condizione che, sola, può consentire di accedere all’amore. 



    D: Tra i temi tanto attuali quanto dibattuti oggi ci sono le relazioni e ancora più le relazioni affettive e con esse l’amore. Come si può definire, riconoscere e coltivare una relazione affettiva sana? 


    R: Non a caso terminavo la precedente risposta con il riferimento all’amore. L’amore è l’effetto di una domanda che un soggetto è in grado di formulare all’Altro. Domanda che non ha nulla a che vedere però con una domanda di soddisfacimento di un bisogno (il bisogno di compagnia, di non rimanere soli, di avere un affetto, di ricevere gratificazione, gioia, appagamento eccetera). 


    La domanda di amore non è una domanda motivata da un bisogno, ma una domanda articolata dal desiderio. Desiderio che succede ai bisogni quando gli stessi vengono opportunamente frustrati dalla madre o da chi è chiamato a soddisfarli, e dunque, come si dice, in conseguenza di tale frustrazione, possono entrare nella catena significante del discorso, essere cioè messi in parola come domanda non più di questo o quello (domanda transitiva che si rivolge all’Altro che dà quello che ha), ma domanda di riconoscimento, quindi di amore (domanda intransitiva rivolta all’Altro del desiderio che, in quanto tale, non può se non dare quello che non ha). La domanda d’amore nasce dunque dal riconoscimento di una mancanza che non può essere soddisfatta da nessun oggetto, perché si nutre a sua volta di mancanza, vale a dire una domanda che vuole solo amore, in quanto mosso dal desiderio, cioè da una mancanza. Per questo Lacan diceva che l’amore è dare quello che non si ha, vale a dire la propria mancanza, ed è ciò che non vuole altro che desiderare l’Altro ed essere dall’Altro desiderato. Dunque l’amore si nutre di mancanza ed è ciò che non vuole saperne altro che di causare il desiderio dell’Altro, vale a dire la mancanza di sé presso la figura amata. Una relazione affettiva sana è dunque è quella che, lungi dal pretendere che l’altro non ci faccia mancare nulla, sa coltivare il desiderio, dunque la mancanza, come ciò che nutre l’amore che lega i due partner. 


    D: Per concludere: in ultima analisi la maggior parte di noi è alla ricerca di un modo per stare bene con se stesso, con gli altri, per vivere una vita che abbia un senso, uno scopo e che sia degna di tale nome. Che indicazioni ci potrebbe offrire per ottemperare a tale missione esistenziale?


    R: La risposta, mi pare, sia contenuta in tutte le precedenti. Naturalmente non esiste una formula che possa indicare il segreto di una vita, sana, piena e appagante per tutti. Diciamo che ognuno è tenuto a cercare la propria singolare via per cercare di stare alla meno peggio con sé, con gli altri e durante la propria esistenza. Come psicoanalisti sappiamo però che non si può stare bene laddove si ritiene di poter fare a meno del proprio desiderio, cioè di fare a meno di riconoscere che siamo soggetti “mancanti”, attraversati cioè da una mancanza radicale e che si manifesta in vari modi: non riuscire a capire sempre quello che vogliamo, oppure non poter mai arrivare a conoscerci del tutto, o accorgerci che è sempre qualcos’altro che desideriamo, oppure anche, come ci dice Lacan, che possiamo desiderare una persona e amarne un’altra e via dicendo. Allora la salute la si ritrova lì dove riusciamo a non fare di questa nostra mancanza, del nostro buco di sapere, della impossibilità a soddisfare del tutto il nostro desiderio, un punto di disperazione, ma a saperne fare un momento di riflessione, di interrogazione soggettiva, un punto di sospensione e di attesa che può essere colto come momento di rilancio, di tensione d’amore verso l’altro e di crescita personale. 


    A questo conduce una psicoanalisi.

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