Blog Layout

La psicoanalisi e le altre psicoterapie

Dott. Egidio T. Errico • giu 15, 2021

La psicoanalisi e le altre psicoterapie

Webinar del 12 giugno 2021

Premessa

  L’analista non esiste, giacché non ricade nel giudizio di attribuzione. Si tratta di una funzione etica che si esprime solo nella particolarità del soggetto che si analizza: vi è dell'analista solo se vi è dell'analizzato.   


Buongiorno a tutti e grazie per essere intervenuti così numerosi. Un successo che né Mariangela, né io ci aspettavamo. Evidentemente il desiderio dell’analista produce i suoi frutti giacché è unicamente grazie a questo desiderio che, come le volte precedenti, mi ritrovo nuovamente qui con voi e con molti altri, su questa piattaforma, a parlarvi di psicoanalisi, della mia psicoanalisi, continuando una consuetudine che ha avuto inizio alcuni anni or sono, prima della pandemia, a Salerno, in presenza, come si dice.

Ritengo infatti che sia proprio quello che Lacan chiama il desiderio dell’analista  a far sì che non sia facile, per un analista impegnato nella propria pratica, sottrarsi al sentimento di aver qualcosa da dire su quello che avviene con i propri pazienti, di darne testimonianza e di far sapere al pubblico in cosa consista la pratica della psicoanalisi.

Si tratta anzi, di più di un desiderio, di una necessità etica: il pubblico va correttamente informato sulla psicoanalisi, su cosa essa sia, e in cosa si distingue dalle altre terapie del disagio psichico. La gente ha a cuore la propria salute mentale e dunque va correttamente informata su come può proteggerla e curare e, soprattutto, su chi e come può farlo. Di quest’ultimo punto, sulla corretta informazione di cosa sia, di cosa può fare e di cosa non può fare uno psicoanalista, J-A Miller ne fa addirittura uno dei doveri fondamentali dello psicoanalista, dopo quello di essere veramente uno psicoanalista: rendere edotto il pubblico di ciò che uno psicoanalista è, di ciò che non sa e di ciò che può promettere.[1]

Siamo qui per tentare di assolvere a questo dovere.


La psicoanalisi e le psicoterapie

Lacan, a cui fu chiesto cosa fosse un’analisi e chi fossero gli psicoanalisti, rispose, con il suo solito stile apparentemente provocatorio ed enigmatico: la psicoanalisi è ciò che praticano gli psicoanalisti e gli psicoanalisti coloro che praticano la psicoanalisi, volendo con questo dire, da una parte, che la psicoanalisi in effetti, per l’oggetto stesso di cui si occupa, non può che sfuggire ad ogni definizione che sia data una volta per tutte, che sia cioè circoscrivibile in un concetto compiuto, e, dall’altra, sottolineare che essa è essenzialmente una prassi, una pratica che, in quanto tale non può considerarsi, a differenza delle altre discipline, come esistente per se stessa, come esistente cioè a prescindere da chi la richiede (il paziente) e da chi la pratica (lo psicoanalista). 

Possiamo qui già cogliere una prima, fondamentale differenza tra la psicoanalisi e le altre psicoterapie, ma anche tra la psicoanalisi e tutte le altre pratiche terapeutiche: solo la psicoanalisi non si costituisce come una disciplina che può sussistere come tale indipendentemente dalla domanda di chi vi si rivolge.

In altri termini, la psicoanalisi, a differenza di tutte le altre terapeutiche, non esiste come disciplina precostituita secondo un Canone universalmente riconosciuto. Nella psicoanalisi non si entra avendola appresa come una tecnica, così come si apprende, per esempio, la tecnica della Medicina, della Cardiologia, o anche della Psichiatria e delle Psicoterapie in genere, discipline che esistono di per sé a prescindere da chi le pratica. La psicoanalisi, pur non essendo una improvvisazione, è una pratica che si inventa ogni volta daccapo. Compito di ogni psicoanalista è dunque quello di inventare la psicoanalisi ogni volta che incontra il paziente che a lui si affida.

In sintesi, possiamo intendere la psicoanalisi come quella pratica della cura messa in funzione dalla domanda del paziente che, stando male, vuole saperne di più su ciò che non va e su ciò che non sa, e lo psicoanalista come colui che si dispone all’ascolto del proprio paziente, di cui, pur conoscendo le leggi che regolano il suo inconscio, sa di non saperne nulla circa e il desiderio che lo abita.

 

La domanda del bisogno

Entrando nel vivo del nostro incontro, e volendo cercare di cogliere la psicoanalisi alla luce di quello che la accomuna e, al tempo stesso, la distingue da ciò che invece intendiamo per psicoterapia, possiamo dire, che la psicoanalisi si costituisce a partire dal suo grado di distanziamento dalla psicoterapia, in particolare attraverso quella modalità che Lacan tratteggia nel suo celebre Grafo del desiderio, che ben dimostra la complessa articolazione sia della struttura della psicoanalisi, sia della domanda che il soggetto rivolge all’Altro - quindi anche all’analista - in rapporto al proprio desiderio:

In particolare, ai fini del nostro discorso, è la parte inferiore del grafo che descrive la struttura della psicoanalisi in quanto ancora psicoterapia, vale a dire quello che la psicoanalisi, a questo livello, ha in comune con la psicoterapia:

Questo livello è importante in quanto permette di avere un’idea precisa della struttura di tutte le psicoterapie, vale a dire di come esse funzionano, e dunque anche della psicoterapia psicoanalitica, intendendo con tale termine, la psicoanalisi quando funziona appunto come una psicoterapia.

Mi rifaccio, in questa sintesi, a quanto J.A. Miller riporta a pag. 160 dei I paradigmi del godimento.[2] Le psicoterapie funzionano in pratica secondo lo schema riportato nella figura 2, in quanto esse si costituiscono attraverso una relazione di padronanza, di dominio, che l’immagine dell’Altro - che Lacan scrive “i(a)” - esercita sull’io del soggetto (moi). È importante tener presente che questa relazione immaginaria - al pari di ogni relazione immaginaria – può sussistere solo nella misura in cui è supportata da una cornice simbolica i cui vertici sono quelli che si vedono nella figura, e cioè: $ (il soggetto diviso, barrato, da cui parte la domanda, che qui è ancora domanda del bisogno), A (l’Altro reale destinatario della domanda), s (A) (il significante che si produce) e I (A) (l’identificazione conclusiva all’Altro ora idealizzato).

In altri termini, il soggetto si rivolge all’Altro collocandolo in posizione di padrone, con un effetto di significazione che si produce, un s(A), e che si conclude con l’identificazione idealizzante con l’Altro I(A).

Bisogna tener presente che nella misura in cui riconosciamo all’Altro cui ci rivolgiamo la posizione di padrone, vale a dire di grande Altro - come lo designa Lacan e come non può non avvenire in qualsiasi relazione psicoterapeutica, quella psicoanalitica compresa – l’effetto di significazione dell’Altro che si produce è sempre quello della identificazione al grande Altro idealizzato. Questa è la base comune tra psicoterapia e psicoanalisi, anzi, possiamo affermare, come ricorda J-A Miller, che a questo livello la psicoanalisi è psicoterapia, cioè terapia attraverso l’identificazione.

Ora, la differenza tra la psicoanalisi e la psicoterapia si costituirà nella misura in cui lo psicoanalista si distaccherà dalla funzione di psicoterapeuta, nel senso che, pur accettando di essere posto in funzione di grande Altro - di padrone, dunque, altrimenti nessuno si rivolgerebbe alle cure di un analista - rifiuterà di identificarvisi, rifiuterà cioè di servirsi, nella propria pratica, del potere della identificazione. In altri termini, l’analista occupa sì il posto del grande Altro, al quale il paziente, spinto dal bisogno, si rivolge per essere aiutato in quanto sofferente, ma si rifiuta di funzionare come padrone. Questo rifiuto è supportato da quello che Lacan chiama il desiderio dell’analista, poiché si tratta di un desiderio più forte del desiderio di incarnarsi nella padronanza che il paziente gli riconosce, o di identificarsi con il sapere che il paziente gli suppone, dal momento che la padronanza che si attribuisce all’analista è padronanza di sapere: lei è il dottore, lei sa quello che ho e cosa devo fare. Per questo Lacan dirà che l’analista è il Soggetto Supposto Sapere. 

A questo livello, mentre lo psicoterapeuta si identificherà con il Sapere che il paziente gli suppone, l’analista accetterà la supposizione, ma ne rifiuterà l’identificazione. Di conseguenza, se lo psicoterapeuta, identificato con il Sapere, è colui che ritiene di possedere le chiavi della soluzione dei problemi del paziente, lo psicoanalista, che invece rifiuta di identificarsi con il Sapere, saprà di non possedere alcuna soluzione, e saprà anche di non sapere in anticipo quale possa essere la guarigione che il paziente può ottenere, o la salute che può consentirsi. Per questo, se lo psicoterapeuta è colui che dice al paziente, poiché, in quanto psicoterapeuta, ritiene di sapere, lo psicoanalista al contrario, chiede al paziente di dire, poiché egli, in quanto psicoanalista, sa di non sapere.  

L’importanza del grafo non consiste tanto nel riconoscere alla psicoanalisi un valore di ordine superiore rispetto alla psicoterapia, non consiste nella necessità di riassegnare l’oro alla psicoanalisi e di riservare il bronzo alla psicoterapia, bensì di permettere che lo psicoanalista sappia, in ogni momento della propria pratica, se si ritrova nel registro della psicoterapia o in quello della psicoanalisi, registri entrambi importanti a seconda dell’emergenza clinica del momento. Anzi, dal grafo possiamo desumere che uno psicoanalista ancor meglio può costituirsi come tale se è in grado di mettersi in funzione anche di psicoterapeuta quando serve, se sa cioè farsi trovare anche sul versante immaginario, laddove questo dovesse rendersi necessario, come infatti spesso oggi capita nella clinica dei  nuovi sintomi, senza per questo perdere di vista di essere uno psicoanalista, e dunque all’etica della psicoanalisi vincolato.


La domanda d’analisi

La psicoanalisi nacque, del resto, proprio dal passaggio che, su richiesta dell’isterica (stia zitto, non mi tocchi, lasci parlare me), Freud accettò di compiere dalla posizione di chi parla alla posizione di chi ascolta, e cioè dalla posizione dello psicoterapeuta a quello dello psicoanalista, dalla posizione dell’ipnotizzatore a quello dell’ipnotizzato: l’analista è infatti nella posizione dell’ascolto mediante quell’attenzione fluttuante che è propriamente l’ascolto psicoanalitico suggerito da Freud, mentre il paziente in quella di chi parla, invitato dall’analista a dire tutto quello che gli passa per la mente, secondo la regola delle libere associazioni.

 Ritornando al grafo, se la parte inferiore raffigura la struttura della psicoanalisi in quello che ha in comune con la psicoterapia, la parte superiore delinea l’articolazione della struttura della psicoanalisi in quanto distinta dalla psicoterapia, in quanto cura che non procede più per identificazione, poiché lo psicoanalista, rifiutando di assumere, di incarnare la padronanza del sapere che gli si suppone, si defila dal posto del grande Altro, per lasciar che si configuri ora come il grande Assente sul piano della risposta al bisogno.

 È nel momento in cui il bisogno non viene soddisfatto, come invece avviene nella parte bassa del grafo, che dal bisogno, come dice Lacan, si strappa la domanda da cui si abbozza il desiderio: “Il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno: margine che la domanda, il cui appello può essere incondizionato solo nei riguardi dell’Altro, apre sotto forma del possibile difetto che il bisogno le può apportare per il fatto di non avere soddisfazione universale (ciò si chiama: angoscia)[3].

 Domanda, quindi, che non è di questo o quello, domanda transitiva, come è il caso della domanda del bisogno, ma che è domanda intransitiva, di riconoscimento: non ti chiedo più di darmi quello di cui ho bisogno, ma ti chiedo di riconoscermi: chi sono io? E cosa voglio?

 Il desiderio, dunque, che si costituisce, come abbiamo visto, nella faglia in cui la domanda si strappa al bisogno, fonda la domanda d’analisi e include, e non esclude - come fa notare Lacan - l’angoscia che la soddisfazione del bisogno tende a coprire.

Non può avviarsi nessun procedimento analitico se non a partire da una domanda sostenuta dal desiderio, un desiderio convinto, dice Lacan. Nessun’analisi può avere luogo se non a partire dalla domanda del paziente: non della madre, del padre, della sorella, del fratello, del partner, ma del paziente e solo del paziente. Una domanda che non può essere neanche suggerita o prescritta, e che può essere indirizzata solo, e direttamente, ad uno psicoanalista. 

Esiste dunque un preciso rapporto tra il desiderio e la domanda: il desiderio è ciò che si domanda. Non esiste desiderio che non cerchi la propria domanda da rivolgere a qualcuno in quanto, come dice Lacan, il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro. E dunque la domanda che il soggetto rivolge all’analista, la domanda che si strappa dal bisogno, è sempre domanda di riconoscimento del proprio desiderio e, al tempo stesso, il desiderio è sempre desiderio di riconoscimento: chi sono io? Ma soprattutto: chi sono io per te?  Per questo il desiderio cerca di trovare sempre la domanda attraverso cui articolarsi, ricorrendo a qualsiasi cosa serva ad esprimerla, dalla parola al sintomo stesso. È precisamente in questo che consiste, e insiste, la domanda d’analisi. È la domanda dell’isterica, la domanda che interroga il soggetto su di sé e sul proprio desiderio. È questa la domanda che lo psicoanalista, a differenza dello psicoterapeuta, deve aspettarsi, deve lasciar emergere, affinché - se è il caso - possa avviarsi un’analisi: Lacan dice che l’analista deve favorire l’isterizzazione  del paziente, ma come? Frustrando il bisogno, in modo da apportare quel possibile difetto alla risposta incondizionata al bisogno, in modo da favorire – e non ostacolare – l’apertura della faglia da cui si abbozza il desiderio e la domanda si strappi al bisogno. Ciò sarà possibile solo nella misura in cui l’analista saprà rendere sopportabile al proprio paziente l’angoscia che ne deriva, sopportandola prima di tutto in sé stesso, giacché il passaggio dal bisogno al desiderio - Lacan lo dice a chiare lettere nella parentesi - si chiama angoscia, angoscia che non risparmia l’analista nel momento in cui si disidentifica dal grande Altro soccorrevole, e che è – noi lo sappiamo - l’angoscia della castrazione.

 La psicoanalisi procede al di là della castrazione e a partire da questa. La psicoanalisi è la risposta alla domanda del soggetto barrato: si fonda sulla barra.

 Le psicoterapie procedono invece al di qua della castrazione, ne prevengono l’angoscia, poiché seguono la linea del rispecchiamento immaginario che, come dice Lacan, è la difesa maggiormente organizzata nei confronti dell’angoscia. Tuttavia, le psicoterapie servono, dal momento che costituiscono, soprattutto all’inizio di un’analisi, e con taluni pazienti, l’unica psicoterapia possibile, spesso preliminare indispensabile alla possibilità che possa impiantarsi successivamente un’analisi. In quanto analisti dobbiamo sempre cercare di portare il paziente dal livello della domanda del bisogno a quella della domanda del desiderio, dal livello della psicoterapia, a quello della psicoanalisi. Per questo uno psicoanalista deve saper farsi trovare anche come psicoterapeuta, e se uno psicoterapeuta è anche psicoanalista è meglio!

A questo punto possiamo cogliere la differenza tra le psicoterapie e la psicoanalisi, non solo nella misura in cui lo psicoanalista si distacca dallo psicoterapeuta, ma anche nella misura in cui il desiderio prende le distanze dal bisogno.

È in virtù di tali distanziamenti che, di conseguenza, la suggestione, attraverso cui procedono le psicoterapie, cede il passo al transfert, sotto il quale opera la psicoanalisi. La pulsione entra nella catena significante articolandosi in domanda: l’origine del transfert sta qui, e mette in movimento il processo analitico.

Riassumendo i tre passaggi cardine, simultanei, che contrassegnano la distinzione tra il livello delle psicoterapie (parte inferiore del Grafo) e quello della psicoanalisi (parte superiore) sono:

1)     il passaggio dalla posizione di psicoterapeuta a quella di psicoanalista, vale a dire il passaggio dalla posizione di chi sa – quindi parla - a quella di chi non sa  - dunque ascolta;

2)     il passaggio dalla domanda del bisogno alla domanda del desiderio;

3)     il passaggio dal registro della suggestione a quello del transfert.


Gli inconsci e i transfert

Per Lacan, l’inconscio  e il transfert, sono due dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, insieme alla pulsione e alla ripetizione. Concetti, tuttavia, diversamente intesi nei vari indirizzi psicoanalitici, spesso in maniera anche molto divergente e controversa tra di loro. In particolare, sono quelli di inconscio e di transfert i concetti maggiormente rivisti e rimaneggiati nel corso degli sviluppi della psicoanalisi, da Freud in poi.

Infatti, tanto per fare un esempio, se è pur vero che oggi l’esistenza di una dimensione inconscia della mente - noi preferiamo dire del soggetto - è universamente riconosciuta, non solo dalla psicoanalisi nei suoi diversi orientamenti, ma anche nel campo della Psicologia in genere, e persino dalla Psichiatria e dalle Neuroscienze, e la nozione di inconscio fa ormai parte della cultura generale ed è entrata anche nel del discorso comune, non in tutti gli ambiti l’inconscio è però considerato allo stesso modo e, soprattutto,  non tutto ciò che il soggetto non sa di sé stesso ha a che fare con l’inconscio psicoanalitico. 

 Per ragioni di tempo, non possiamo qui approfondire come l’inconscio, ma anche i concetti di transfert, di pulsione e di ripetizione, siano variamente considerati nei diversi indirizzi psicoanalitici, Ci limiteremo all’inconscio e al transfert, considerandoli brevemente alla luce delle loro diverse concezioni tra la psicoanalisi dei cosiddetti post-freudiani e quella lacaniana, dal momento che tali divergenze incidono fortemente su sulla struttura e l’impianto generale della cura psicoanalitica nei due rispettivi orientamenti, sia sul piano della teoria che su quello della clinica.

 Come è anche fin troppo noto, nel primo Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio, attraverso le leggi della metafora e della metonimia, che corrispondono, rispettivamente, alla condensazione e allo spostamento, che Freud indica nel capitolo VII dellaTraundeutung come  i meccanismi implicati nel lavoro onirico. L’inconscio, in questa fase dell’insegnamento di Lacan, è l’inconscio della I topica freudiana, l’inconscio interpretabile attraverso le sue formazioni: il sogno, il lapsus, ma anche il motto di spirito e il sintomo. In questa fase il reale non può entrare in nessun modo nel simbolico e dunque è completamente tagliato fuori dal processo psicoanalitico.

A partire dal 1964 Lacan vedrà invece l’inconscio soprattutto nella sua qualità negativa di ciò che manca, di ciò che si ritrova nella battuta d’arresto del discorso, di ciò dunque che non entra nella parola o che vi entra in altro modo. L’inconscio, dunque, è agganciato alla parola inter-detta, alla parola che si produce dal taglio del discorso, vale a dire quella che, come vedremo, si produce in seguito alla interruzione della ripetizione della sfilata dei soliti significanti, dalla interruzione del transfert di ripetizione, in altre parole, dalla resistenza al dire.

 L’inconscio, allora, a differenza dell’inconscio freudiano, non è più tanto il contenuto nascosto alla coscienza, non è il profondo che si rivela alla superficie attraverso le formazioni simboliche e lungo la catena significante del discorso, ma ciò che è già lì, in superficie, alla superficie del discorso, tra le righe del dire, perché il soggetto dice sempre di più di quello che intende dire. A differenza quindi dell’inconscio freudiano, e quindi anche dei post-freudiani, l’inconscio non costituisce una struttura che preesiste in autonomia all’accadimento psicoanalitico, ritenuto in questo caso, ciò che lo rivelerebbe, ma è l’accadimento psicoanalitico stesso, soprattutto inteso come ciò che fa venir meno la parola. L’inconscio non è dunque ciò che sottostà alla coscienza e può essere diffusamente interpretato in ogni manifestazione dell’essere umano, come è nella concezione kleiniana, ma appare solo raramente, come un’apertura e una chiusura che può essere colta solo in après coup, solo nel momento in cui scompare. In questo senso, per Lacan, allora, l’unica formazione dell’inconscio è la parola, la parola che non viene detta o che viene detta in altro modo, essendo l’inconscio non ciò che già è, ma ciò che, nell’inciampo del dire all’analista, si produce.

L’inconscio assume quindi una connotazione negativa, è un non è, è dell’ordine dell’indicibile, dell’impossibile a dirsi e rimanda direttamente alla pulsione. Per questo, per Lacan, l’inconscio è etico, non ontico ed è ciò che si dà solo nell’accadimento singolare di una seduta.

Questa particolare concezione dell’inconscio influenza direttamente quella del transfert nella psicoanalisi lacaniana, e segna la differenza fondamentale con la concezione del transfert dei post-freudiani, ma segna anche - è importante ribadirlo - il confine tra la psicoanalisi e le psicoterapie, dal momento che il transfert insorge, come abbiamo visto, quando il bisogno lascia il passo al desiderio, quando la suggestione, attraverso cui operano le psicoterapie, cede al transfert, sotto il quale procede la psicoanalisi: per questo, potremmo dire che il transfert è ciò che si determina nel momento in cui la suggestione cessa di farvi obiezione.

Per i post-freudiani, il transfert è inteso come la ripetizione del passato sul presente o delle figure genitoriali su quella dell’analista. Lacan distingue invece il transfert dalla ripetizione, agganciando questa alla pulsione, mentre il transfert è, al contrario, ciò che interrompe la ripetizione, vale a dire, come ho anticipato poc’anzi,  ciò che interrompe l’incontro con le solite figure, con i soliti significanti, per aprire non più al passato, ma al nuovo, all’incontro, non con i soliti, ma con nuovi significanti, con qualcosa di inedito. 

Lacan ci presenta il transfert come il cattivo incontro,  l’incontro fallito, vale a dire l’incontro che si ha per il fallimento della ripetizione. Il buon incontro è invece l’incontro nuovo, non quello che si ripete, non l’incontro riuscito ancora una volta con l’identico della ripetizione. Si tratta del non-incontro con la sfilata dei soliti significanti, qualcosa cioè dell’ordine di uno scontro con l’uguale, con ciò che si ripete. In questo modo Lacan ci mostra che la ripetizione non è il transfert.

 Vi renderete conto che qui non si tratta solo di una differenza, ma proprio di una contrapposizione: se i post-freudiani ritengono si debba favorire il transfert in quanto ripetizione, l’analista lacaniano sa che è proprio questo tipo di transfert che va evitato.

 Nella psicoanalisi lacaniana dobbiamo insomma favorire quel transfert che Freud vide prima di tutto come resistenza, con la differenza che noi non lo interpretiamo, ma lo accogliamo silenziosi. Per Lacan, a differenza dei post-freudiani sarebbe un errore interpretare il transfert.

 Un transfert, dunque, non dal lato del congiungimento alienante con l’Altro, con l’effetto di significazione nell’identificazione, ma tutto dal lato della separazione, dal lato della caduta dell’identificazione alienante con l’Altro, vale a dire quel transfert in virtù del quale l’analista, da grande Altro di investimento della parola, transita verso il grande Assente, verso quel posto in cui egli non si fa trovare, non si fa trovare come figura di incarnazione dei soliti significanti.

Il transfert di ripetizione è un transfert simbolico, in quanto si produce nel movimento di apertura dell’inconscio all’elaborazione simbolica, e alla produzione significante, mediata dalla parola, mentre il transfert che si produce in seguito alla interruzione della ripetizione è il transfert reale, in quanto insorge come resistenza alla ripetizione della produzione significante ad opera della elaborazione simbolica, e, dunque il transfert reale è l’opposto del transfert simbolico.

Laddove, nel transfert di ripetizione, la parola situa il soggetto dal lato della congiunzione all’Altro cui essa è destinata, il transfert reale si iscrive dal lato della sua separazione: si tratta, ad esempio, di quei momenti in cui, nel corso di un’analisi, anche di una singola seduta, improvvisamente la parola viene a mancare e compare il silenzio. È  proprio nel momento in cui il paziente ci dice: non so più cosa dire, non mi viene più niente in mente, oppure quando si chiede: cosa ci faccio ancora qui? che, evidentemente, siamo giunti proprio sul bordo dell’inconscio in quanto ciò che al discorso si sottrae in quanto l’impossibile a dirsi.


Solo alcune brevi considerazioni ancora sulle differenze tra la psicoanalisi e le altre psicoterapie in relazione al percorso, all’oggetto di cui si occupano e alle loro finalità.

 

Il percorso

A differenza della psicoanalisi di cui ci occupiamo, le altre psicoterapie rispondono alla logica del mettere a posto quello che non va e promettono la guarigione dai sintomi. Sono dunque in linea con l’esigenza del soggetto della post-modernità di essere prontamente e del tutto restituito alla normalità non appena avverta quel qualcosa che non va, una normalità intesa come funzionamento senza inceppi. Le psicoterapie alimentano dunque l’illusione che sia possibile correggere qualsiasi allontanamento da questa idea di normalità. 

Lacan afferma a questo proposito che la più efficace delle terapie in questo senso, la vera cura di quello che non va, è la religione, che promette infatti la via della salvezza e la soluzione di tutti i mali del mondo. Il suo compito è quello di acquietare i cuori, di dare un senso a qualunque cosa. Per esempio alla vita umana.

 La psicoanalisi del Campo freudiano invece no, non promette risultati “miracolosi” di guarigione da tutto quello che non va, come se quello che non va fosse una malattia da cui guarire. La psicoanalisi non si propone di mettere tutto a posto, cosa che non è possibile, dal momento che invece, negli esseri umani, c’è sempre qualcosa che non è a posto, qualcosa che proprio non vuole saperne di mettersi al posto che vorremmo assegnargli, ed è l’inconscio: l’inconscio freudiano è proprio quel qualcosa che non va e che non vuole saperne essere messo a posto.

 La psicoanalisi, piuttosto, permette al soggetto di potersi maggiormente rendere conto che invece è proprio lì, in ciò che non va a posto, nell’inconscio, che egli risiede in quanto soggetto vero, in quanto soggetto del proprio desiderio, singolare, e irriducibile a qualsiasi tentativo di metterlo a posto una volta per tutte: il desiderio che dovesse trovare la sua “sistemazione” definitiva, il posto giusto e prestabilito dove accomodarsi, cesserebbe di essere desiderio e diventerebbe una gabbia.

Freud paragonava il procedimento analitico alla partita di scacchi: possono essere note in anticipo, intuibili, le mosse di apertura e di chiusura, ma è il centro della partita ad essere ignoto perché il centro dell’analisi è l’ombelico del sogno di Irma,  il buco di sapere che apre all’indicibile dell’inconscio e al reale contingente del transfert psicoanalitico. È qui che l’inconscio può trovare quella parola cui l’analista non deve far da ostacolo mediante l’uso della propria. È il momento dell’ascolto del  silenzio e il momento del silenzio della pulsione, vale a dire della interruzione del transfert di ripetizione.

 

L’oggetto

 L’oggetto della psicoanalisi non è lo stesso di quello  delle altre psicoterapie.

Infatti, se pure, come ricorda J.-A. Miller[4], psicoanalisi e psicoterapia riconoscono entrambe l’esistenza di una realtà psichica, la psicoanalisi si distingue dalla psicoterapia poiché non è della realtà psichica che si occupa, bensì dell’inconscio, che non è la stessa cosa.

  L’inconscio non ha a niente a che vedere con la realtà psichica poiché, se questa è assimilabile a un apparato di funzioni alterabili e dunque curabili, l’inconscio non può certamente essere pensato allo stesso modo, non può essere curato come un organo quando si ammala, essendo, piuttosto, l’inconscio, esso stesso il disturbo, la malattia del soggetto parlante. Che senso avrebbe dunque pensare di curare l’inconscio che in quanto tale è appunto piuttosto dell’ordine dell’incurabile? E da questo punto di vista, può allora la psicoanalisi essere considerata ancora una terapia? E di cosa? E d’altra parte, se ad essa comunque si rivolge chi sta male, in cosa consiste allora la cura psicoanalitica? Come e cosa cura la psicoanalisi a differenze dalle altre psicoterapie?

Ecco l’altra faccia della psicoanalisi: se essa, come abbiamo visto, è anche una psicoterapia, se pure la psicoanalisi è come psicoterapia che viene riconosciuta non solo da chi vi si rivolge, ma, almeno in Italia, anche dallo Stato, la psicoanalisi è al tempo stesso pratica che ha per oggetto la dimensione non riconoscibile in termini di qualcosa di curabile, né riconoscibile in termini di funzioni alterabili del soggetto.

La psicoanalisi, a differenza delle altre psicoterapie che fondano una clinica del funzionamento, della riparazione, si costituisce come clinica della mancanza, avendo per oggetto l’inconscio, che in quanto tale può essere, riconosciuto e anche interpretato, ma non curato.

 

Le finalità

La psicoanalisi, dunque, a differenza delle altre psicoterapie non può promettere la guarigione intesa come restituzione ad uno stato di salute precedente.

Nella Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola[5] Lacan affronta la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia proprio sulla questione della guarigione ricordando che se la psicoterapia è definita come la restituzione a uno stato anteriore, tale definizione è impossibile per la psicoanalisi. [6]

La psicoanalisi non punta infatti alla soppressione del sintomo, ma a far sì che il soggetto possa mutare la propria posizione in relazione ad esso, facendone qualcos’altro che una sofferenza o una ripetizione di godimento mortifero. La psicoanalisi non è una clinica della riparazione, ma un percorso etico, vale adire un processo che procede favorendo lo spostamento del   soggetto rispetto al solito discorso, che è quello del sintomo, affinché possa produrne un altro che sia qualcosa di diverso da un sintomo, e che Lacan chiama sinthome. Un modo nuovo, inedito di stare al mondo, di starci in maniera più sopportabile. Non si tratta perciò di restituire il soggetto ad una normalità perduta, ma di condurlo ad un dopo che non sarà più come prima.

Su questo piano, la psicoanalisi del Campo freudiano e quella degli sviluppi cosiddetti post-freudiani, pur muovendo entrambe dalla domanda di analisi, vale a dire da un’interrogazione soggettiva sul proprio sintomo, non procedono allo stesso modo, né condividono le stesse finalità, in quanto le finalità delle psicoanalisi dei post-freudiani sono opposte a quelle dell’analisi lacaniana.

Possiamo dire che le analisi dei post-freudiani sembrano ritenere possibile perseguire obiettivi precisi e che vengono intesi anche come indicatori ideali e attendibili di una psicoanalisi riuscita. Questi ideali sono essenzialmente tre:

 1) l’ideale dell’amore genitale inteso come quello in cui si realizzerebbe appieno la relazione oggettuale;

 2) l’ideale dell’autenticità, nel senso che essendo quella analitica una tecnica di "smascheramento" non può che condurre il soggetto alla sua autenticità più piena e genuina e alla sua verità senza veli e inganni;

3) l’ideale dell’autonomia, in virtù del quale il soggetto può arrivare alla felice condizione del superamento di qualsiasi vincolo di dipendenza dall'altro.

 Tali obiettivi, posti come finalità ideali delle analisi dei post-freudiani, dipendono, fa notare Lacan, soprattutto da quella famosa svista della frase di Freud Wo Es War, soll Ich werden, tradotta classicamente nel seguente modo: là dove è l’Es, lì sarà l’Io, nel senso di lì l’Io sloggerà l’Es, mentre la sua corretta traduzione per Lacan dovrebbe essere: lì dove è l’Es, lì Io giungerò, io in quanto soggetto e non io in quanto istanza, in quanto Soggetto dell’Es: Questo Es, prendetelo come la lettera S. È lì, sempre lì. È il soggetto. Si conosca o non si conosca. Non è nemmeno la cosa più importante – ha o non ha la parola. Alla fine dell’analisi è lui che deve avere la parola, ed entrare in relazione con i veri Altri. […] È qui che il soggetto reintegra autenticamente le membra disgiunte e riconosce la sua esperienza.[7]

Dunque, nel Campo freudiano, non è l’Io che deve prodursi, l’Io come luogo delle identificazioni idealizzate ed immaginarie, ma il soggetto diviso, il soggetto che emerge, al contrario, proprio dalla caduta delle identificazioni, non un essere un io, dunque, ma un dis-essere, sul piano delle identificazioni immaginarie.

 

La posizione dell’analista

Per concludere, la psicoanalisi non è una relazione tra due soggetti, non è una relazione intersoggettiva, non è una psicoterapia della intersoggettività nella quale due soggetti entrano in dialettica tra di loro attraverso una relazione di simmetria speculare. Nella situazione analitica il soggetto è uno solo, ed è il paziente, essendo l’analista il grande Assente, colui che, pur accogliendo su di sé l’oggetto prezioso, l’àgalma, sa che questo non è destinato a lui, poiché lui ne è solo l’ambasciatore, essendo quell’oggetto destinato sempre a qualcun altro, che l’analista deve essere in grado di mostrare al paziente.

 L’analista dunque deve sapersi ridurre a mero oggetto d’uso.

 Laddove, invece, dovessero mettersi  al lavoro due soggetti sul piano di una relazione simmetrica, lì non potrà mai esservi analisi, poiché non potrà mai esservi transfert psicoanalitico: il transfert, è ciò che s’impianta in conseguenza della asimmetria della relazione analitica, ed è per questo, come dice Lacan, che il transfert è il principio della cura che fa da inciampo alla intersoggettività.

L’analista non deve costituirsi dunque come il soggetto che si pone di fronte al paziente e che gli risponde a tu pe tu¸ non è il soggetto della risposta al bisogno e che dà quello che ha, il proprio sapere, non è neanche l’oggetto del soddisfacimento dei desideri: l’analista non ha nulla da dare, piuttosto egli si pone in funzione di oggetto che causa quel desiderio di sapere che è all’origine del transfert analitico.

Per questo il lavoro analitico è difficile: non dipende dall’utilizzo più o meno corretto di una  tecnica che possa essere appresa, ma procede in funzione di un’etica, vale a dire, non grazie ad un sapere, ma ad un saperci correttamente stare, col paziente, resistendo alle sollecitazioni che possono spingere l’analista a identificarsi con il Sapere che il paziente gli suppone. Una tale capacità è funzione non di un apprendimento scolastico, ma di quell’operatore logico che Lacan chiama il desiderio dell’analista, e che è quel desiderio, come abbiamo già detto, più forte del desiderio di mettersi in posizione di padrone del Sapere, quel desiderio che infervora nell’analista quella che Lacan chiama la passione dell’ignoranza, e che discende esclusivamente dalla propria analisi, un’analisi ben fatta e condotta fino in fondo. 

La formazione degli psicoanalisti

Solo un accenno alla questione della formazione degli psicoanalisti.

Nel “Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale”  (1926)[8], Freud afferma: “Il professionismo è l’ultima maschera assunta dalla resistenza alla psicoanalisi, è la più pericolosa di tutte” , mostrando in questo modo di anticipare Lacan quando ricorda che in analisi l’unica resistenza è quella che proviene dall’analista, nel momento in cui si pone come il dottore, come colui che sa, ma che così facendo non sa che, attraverso la propria maschera professionale, sta facendo obiezione al transfert.

 Oggi ci ritroviamo in un’epoca in cui, dopo tanti anni, le Scuole di psicoanalisi, soprattutto italiane, stabiliscono criteri sempre più meticolosi a garanzia della corretta formazione degli psicoanalisti, in particolare da quando hanno deciso di sottoporsi al riconoscimento legale da parte dello Stato. Da quando hanno cioè deciso di avere un Padrone. La psicoanalisi è diventata una faccenda di professionisti che sono obbligati ad essere riconosciuti da un Padrone che ne attesti e garantisca professionalità e rigore, quando già nel 1926 Freud - ve lo ripeto - avvertiva: Il professionismo è l’ultima maschera assunta dalla resistenza alla psicoanalisi, è la più pericolosa di tutte.

Pongo dunque, in conclusione, un altro discrimine tra la psicoterapia e la psicoanalisi: se la psicoterapia è pratica riconoscibile e lo psicoterapeuta è figura abilitabile  su cui lo Stato garantisce, chi può garantire sullo psicoanalista. È fin troppo nota l’affermazione di Lacan che lo psicoanalista non si autorizza se non da sé stesso, con ciò intendendo, non certo che chiunque può improvvisarsi alla pratica della psicoanalisi, ma che costituirsi come psicoanalista richiede un atto di responsabilità soggettiva che può avvenire solo alla fine della propria analisi, e di cui occorre saper dare testimonianza attraverso quella procedura che Lacan ha definito della passe.

E dunque, ritengo, che sia arrivato il momento in cui le Scuole per la formazione degli psicoanalisti si interroghino seriamente se non corrano il rischio di produrre troppo professionismo nei nuovi psicoanalisti, di produrre più funzionari dei saperi forniti loro dalle Università, piuttosto che psicoanalisti in grado di rifiutare nella loro pratica di esserne i nuovi padroni.

 La formazione dello psicoanalista procede infatti soltanto nella direzione opposta a quella dell'insegnamento universitario, dal momento che è necessario che l'analista, nella sua pratica, si svuoti di quel sapere - che pure è opportuno che possegga in partenza, a patto però di sapere quando farne a meno. Lo psicoanalista, infatti, deve stare attento a non cadere nella trappola della convinzione che  il sapere appreso dall’Università possa servirgli alla conoscenza delle ragioni della sofferenza di cui si occupa, deve stare attento a non fare di quel sapere la propria maschera professionale.

 La formazione psicoanalitica, piuttosto, ha senso soltanto se si costituisce come dialettica tra due saperi che si contrappongono, quello del paziente, vale a dire dell’isterica, e quello universitario.

Una tale dialettica è necessaria in quanto isomorfa alla dialettica soggettiva tra il sapere inconscio (di cui il soggetto non sa) e il sapere cosciente (che il soggetto presume essere il suo unico suo sapere), per cui, se un analista non sa mettere in discussione il proprio sapere universitario per contrapporvi un vuoto di sapere, allora non potrà mai costituirsi in quel luogo in cui l'inconscio del paziente possa essere messo in parola, quel luogo in cui qualcosa di psicoanalitico possa accadere.

 

Salerno, 12 giugno 2021                                                                 




[1] J-A Miller, I paradigmi del godimento. Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2001, pag. 163
[2] J-A Miller, op. cit. Nuovo paragrafo

[3] J. Lacan. Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano,  in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, pag. 816

[4] J-A Miller,  op. cit., pag. 165

[5] In Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, pp. 241-278.

[6] In questo importante scritto Lacan affronta la questione della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia anche sul piano della logica di decidibilità, che attiene alla psicoanalisi, diversamente dalle psicoterapie che si muovono invece all’interno della logica di indecidibilità.

[7] J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, 1954-1955. Einaudi Torino, 2006, pag. 284-285

[8] In Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 345

Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 25 mar, 2024
L'odio non tollera la domanda
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 16 feb, 2024
Perché la psicoanalisi fa bene
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 20 gen, 2024
Ma cos'è questo Fantasma di cui tanto si parla in psicoanalisi e non solo - anche se in altri ambiti per lo più declinato al plurale? Per dirla nella maniera più semplice possibile, il Fantasma, il Fantasma fondamentale per meglio dire, può essere immaginato come una sorta di griglia, di "schema" articolato, per lo più inconscio, attraverso cui affrontiamo, viviamo, interpretiamo la realtà che ci circonda, in particolare le nostre relazioni con l'Altro (e con noi stessi). Possiamo dire che il Fantasma è il modo attraverso cui il soggetto si suppone per l'Altro e come ritiene che l'Altro a sua volta lo supponga : una sorta di lente che interponiamo tra noi e il mondo e attraverso la quale filtriamo l'esperienza che ne facciamo. In altre parole, il Fantasma - che ognuno si costruisce a modo suo a partire sin dalle su più precoci esperienze di vita - è ciò che condiziona il modo attraverso cui ognuno di noi vive la propria vita, da quando è piccolo, fino a quando muore. Per Lacan, però, il Fantasma è almeno altre due cose: 1) una sorta di piattaforma "girevole" entro cui circola, si muove, "corre come un furetto", il desiderio , cercando continuamente dove collocarsi e soprattutto come uscirne; 2) una struttura che conferisce consistenza al soggetto , soprattutto quando deve affrontare ciò che non conosce, ciò di fronte a cui può sentirsi solo e perso, vale a dire il Reale , il reale soprattutto del proprio desiderio. Il Fantasma è dunque non solo ciò che ci condiziona e ci imbriglia, ma anche ciò che ci sostiene nei momenti decisivi. Lacan collega dunque il Fantasma al desiderio in quanto è attraverso di esso che il soggetto si illude di intravedere e acciuffare l'oggetto del proprio desiderio: " E' nelle maglie dell'articolazione del fantasma soggettivo che il desiderio compie i suoi giri senza trovarvi mai un punto di arresto: se è nel fantasma che il soggetto cerca da una parte l'aggancio del suo desiderio verso l'Altro, è nel fantasma stesso che vi trova dall'altra la difesa nei confronti dell'angoscia di precipitarvi del tutto ." (Lacan) Vuole dire che, se, da una parte, il Fantasma ci permette di tendere verso l'Altro , l'Altro del nostro desiderio, dall'altra, esso è anche ciò che ci permette di non "precipitarvi del tutto", per questo, nella famosa formula del fantasma ($◇⍺) , Lacan, tra il Soggetto ($) e l'oggetto del desidero (⍺) sceglie il "punzone" (◇) che indica una relazione di attrazione e di respingimento al tempo stesso. Ora, in conseguenza dell'esistenza del Fantasma soggettivo, il rapporto col mondo non può essere mai del tutto obiettivo e mai diretto, ma è sempre mediato, e dunque un po' "distorto" e "interferito" dal Fantasma stesso. E' soltanto attraverso l'esperienza psicoanalitica che si viene prima o poi a sapere di questo fantasma, e a riconoscerlo come proprio. Ed è soltanto in analisi che arrivare a riconoscere il proprio Fantasma, il poterci fare i conti, il poterlo "attraversare", come dice Lacan, ci aiutano a farci capire -e anche cambiare- molte cose di noi, il nostro modo di vivere, il nostro modo di amare e di godere, il nostro modo di stare al mondo, con i nostri simili, in maniera più sopportabile. #fantasmasoggettivo #fantasmafondamentale #desiderio #reale #esperienzasoggettiva
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 14 gen, 2024
Devo vedere l'osso
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 14 gen, 2024
Neiroscienze e psicoanalisi
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 13 gen, 2024
Lo scopo della cura psicoanalitica
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 07 gen, 2024
L'etica del limite
Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 14 mag, 2023
Domanda di riconoscimento e domanda d'analisi
Autore: Egidio T. Errico 13 apr, 2023
Inconscio e intersoggettività
Autore: Egidio T. Errico 07 gen, 2023
Perché l'inconscio non può avere un suo corrispettivo neurofisiologico
Altri post
Share by: