L'analista non si autorizza se non da sé stesso

Egidio T. Errico • 30 aprile 2021

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La posizione di Lacan sulla cosiddetta formazione degli analisti, su come lo si diventa e in che modo un analista può riconoscersi finalmente come tale, è chiara ed è quella che egli enuncia attraverso la famosa frase: "L’analista non si autorizza se non da se stesso".


Se la posizione di Lacan è chiara, la frase appare però ambigua oppure, come spesso succede con Lacan, enigmatica, controversa, strana. Cosa vuol dire che un analista non si autorizza se non da se stesso? L'interpretazione che ne è stata data, spesso, nella vulgata lacaniana, è che chiunque può autorizzarsi da solo come analista, senza bisogno di alcun riconoscimento da parte di una Scuola, attribuendo in questo modo a Lacan una sorta di disinvolto permissivismo grazie al quale ognuno, se vuole, può ritenersi analista e di conseguenza mettersi a curare pazienti mediante lo strumento della psicoanalisi.


In effetti Lacan vuole dire tutt'altra cosa e, anzi, la sua espressione, se correttamente interpretata, restringe, non amplia, le possibilità -e i rischi - che chiunque possa mettersi a fare l'analista, basti che si "autorizzi da solo".


Innanzitutto, Lacan, come è suo solito fare quando si tratta di enunciare un concetto che deriva la sua forza proprio a partire dalla sua negazione di partenza, pronuncia la frase in una formulazione negativa: dire "l’analista non si autorizza se non da sé stesso" non è la stessa cosa che dire "l'analizza si autorizza da solo", come la frase viene invece abitualmente presentata, e come non andrebbe fatto senza correre il rischio di far dire a Lacan il contrario di quello che voleva dire. La formulazione al negativo, infatti, in maniera particolarmente efficace, e senza ombra di dubbio, rimarca il concetto, non che chiunque possa improvvisarsi analista, ma che chiunque, avendo in mente di voler fare l'analista, per quanto si assicuri un percorso formativo rigoroso presso Scuole per analisti accreditate e, soprattutto, per quanto porti avanti la propria analisi personale fino alle sue estreme conseguenze - condizioni comunque ritenute da Lacan imprescindibili- deve sapere che non potrà autorizzarsi (di qui la necessità di partire dalla formulazione negativa del "non si autorizza") se elude il fatto che riconoscersi analista è un "passaggio" che potrà e dovrà compiere se non da solo: nessuno, né i saggi della Scuola -come avviene nelle Scuole tradizionali per psicoanalisti come quelle dell'IPA- né tanto meno il suo analista potranno dirgli: "ecco ora sei analista!".


In altre parole - vuole evidentemente raccomandare Lacan - il passaggio dalla posizione di analizzante a quella di analista non è un passaggio automatico, né un passaggio che conferisca un "diritto di riconoscimento" scontato, e dunque che possa avvenire per "concessione" dell'Altro della Scuola, di un terzo cioè, ma si tratta di un passaggio che richiede  un "atto" di decisione di colui che, avendo compiuto un proprio percorso, si assuma - da solo e "tutto solo" - la responsabilità di dichiararsi analista e di chiedere , per esempio, un "controllo" sulla propria pratica.

 

Analista dunque non si diventa per nomina, ma attraverso un atto di riconoscimento soggettivo di cui si sappia dare testimonianza, si sappia cioè dimostrare perché si ritiene - a un certo punto della propria analisi - di essere passati dalla posizione di chi parla (analizzante) alla posizione di chi ascolta (analista).


La frase inoltre, accanto al fatto che - come abbiamo visto - non ci si può riconoscere analista se non attraverso un atto in cui si è soli nel momento in cui lo si compie, introduce anche un secondo aspetto, altrettanto fondamentale per il passaggio dalla posizione di analizzante a quella di analista e cioè che un analista è tale non solo se è capace di assumersi, da solo, la responsabilità di richiedere un riconoscimento, ma anche se è capace di "distaccarsi da sé stesso", giacche "non autorizzarsi se non da sé stesso", non significa soltanto "non autorizzarsi se non da solo", ma anche "non autorizzarsi se non prendendo le distanze da sé stesso"


Questo perché, se l'analisi è quel procedimento che avviene solo sotto transfert, e il transfert è, nell'accezione freudiana, "la messa in atto della realtà dell'inconscio", l'analista deve allora essere in grado di permettere che un transfert così inteso si impianti effettivamente, nonché di proteggere l'inconscio del paziente - il suo transfert dunque - da qualsiasi intrusione da parte dell'attualità e della realtà extra-analitiche, compresa quella parte della persona dell'analista che a tale realtà extra-analitica rimane comunque agganciata e dalla quale l'analista deve sapersi, opportunamente, appunto distaccare. 


In altre parole, l'analista è quella figura che - chiamata ad implicarsi nell'inconscio del proprio analizzante e a proteggerne il transfert - deve sapersi "distaccare" da quel "se stesso" che invece rimane implicato nella realtà extra-analitica attraverso il proprio personale sistema di valori che, in quanto tali, non devono fare intrusione nel transfert dell'analizzante.

Il che significa che l'analisi in quanto pratica non si dà che nella contingenza di un incontro, quello con il proprio analizzante cui l'analista si dispone attraverso l'atto di non autorizzarsi se non da sé stesso, vale a dire che autorizzarsi come analista è un atto che non vale una volta per sempre, ma che deve essere ogni volta compiuto daccapo, essendo dell'ordine della contingenza - di ciò che ogni volta cessa di non scriversi - e non dell'ordine della necessità - di ciò che non cessa di di scriversi.


In sintesi, dunque, la tanto controversa frase "L’analista non si autorizza se non da se stesso" significa essenzialmente due cose:


1) riconoscersi analista è un atto che si compie da soli, assumendosene tutta la responsabilità;


2) costituirsi come analista è possibile solo se chi vuole lavorare in quanto tale è in grado di distaccare il sé stesso analista - se ce ne è - dal sé stesso persona.

Autore: DOTT. ERRICO EGIDIO TOMMASO 15 giugno 2025
Freud ha dimostrato che la perversione è un non volerne sapere nulla, ma proprio nulla, della castrazione. Una doppia negazione dunque: "non è vero che non c'è il fallo lì dove non posso fare a meno di volere che ci sia". Freud ha chiamato " Verleugnung " questo meccanismo di rigetto, di ripudio della realtà della castrazione. Lacan, riprendendo la questione dal punto di vista della " castrazione della madre ", mette in rilievo come il perverso non tolleri che l'Altro sia "bucato" , sia mancante cioè proprio di quello che gli serve per assicurarsi il proprio godimento, un godimento che egli deve necessariamente prelevare "nel luogo dell'Altro", e che non sopporta possa essere interdetto dalle ragioni dell'Altro, in buona sostanza, non tollera che il proprio godimento possa trovare un limite nel desiderio dell'Altro. Il perverso è dunque colui che si serve della "Verleugnung" (diniego, doppia negazione) per impedire che il desiderio dell'Altro interrompa il proprio godimento , come dire: "il tuo desiderio si oppone al mio interesse? Disturba la stabilità della mia posizione e la certezza delle mie convinzioni? Bene, neanche mi chiedo il perché, faccio prima a rigettarlo di sana pianta, non ne tengo alcun conto, per il semplicissimo motivo che esiste una sola posizione, la mia." In altre parole il perverso non riconosce la differenza dell'Altro , per questo è, appunto, "indifferente" alle ragioni dell'Altro - laddove invece il nevrotico ne soffre - è indifferente alla realtà. Non dice, all'Altro, "è vero che tu non sei d'accordo con me, ma non lo sopporto" - che è invece la posizione del nevrotico, ovvero sia il riconoscimento che l'Altro sta dicendo qualcosa di diverso che lui non sopporta, sia il riconoscimento che lui non lo sopporta, un "doppio riconoscimento", dunque, che aprirebbe comunque ad una dialettica - ma dice, più radicalmente: "non è vero che tu non sei d'accordo con me", confondendo e facendo spesso vacillare la realtà nell 'Altro! Una "doppia negazione", appunto, come a dire che nell'universo mondo non c'è che una sola verità, la sua! E' esattamente questa la posizione di godimento del perverso. Per questo, possiamo dire, che qualsiasi comportamento tendente a disconoscere le istanze altrui, quando queste costituiscono un limite al godimento soggettivo, può essere considerato un comportamento di perversità , come può esserlo, per esempio, in una coppia, quello di un partner che si rifiuti di prendere atto del desiderio dell'altro di volersi, per esempio, separare: si rifiuta di prenderne atto per continuare a farlo sussistere nel ruolo dì partner anche se questi se ne dichiara fuori. E' il caso dello stalking, che infatti è un comportamento perverso. In altre parole, il rapporto perverso non può essere interrotto , poiché si fonda sulla complicità inconscia, di distruggere la castrazione in ciascuno dei partner, di distruggere cioè il desiderio come causa del legame della coppia per sostituirlo con il godimento, in maniera da s congiurare il rischi, insopportabile per il perverso, di poter amare, il rischio, per i p due partner bloccati dal patto perverso, di innamorarsi l'uno dell'altro. Occorre cioè che il godimento nel plagiare l'Altro si incastri con il godimento dell'Altro a farsi plagiare. Da questo patto diabolico, dalla complicità perversa all'interno di una coppia - ma anche all'interno di un gruppo, di un'Associazione, di un'Istituzione, di una Setta - a collaborare attivamente per costruire e difendere la sola Verità possibile, ossia che non vi è nessuna castrazione in ciascuno, non è dunque possibile uscirne , prima di tutto perché l'angoscia che si scatenerebbe in seguito a una tale ipotesi entra a far parte sin dall'inizio dello stesso patto perverso, anzi ne costituisce il cemento, e poi anche perché il rischio di ritorsioni, terribili, anche omicide, è altissimo per chi voglia tirarsi fuori dal gioco, poiché rompere il patto perverso significa infliggere la pena insopportabile della castrazione. Molti femminicidi ne sono un esempio, e, nella Storia, la santa Inquisizione, i roghi, le Crociate ne sono altri. Quali azioni di stalking sistematici possono esserci piu delle "crociate" anche moderne contro tutte le posizioni discordanti da ciò che è ritenuta l'unica verità vera da imporre anche sotto minaccia di morte? In conclusione, è perverso ogni atteggiamento, posizione o comportamento che si basi sul disconoscimento di quella separazione tra gli esseri che di fatto è già data per avvenuta in qualsiasi contesto umano, e che è posta a fondamento dell'amore e della vita.
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Ma cos'è questo Fantasma di cui tanto si parla in psicoanalisi e non solo - anche se in altri ambiti per lo più declinato al plurale? Per dirla nella maniera più semplice possibile, il Fantasma, il Fantasma fondamentale per meglio dire, può essere immaginato come una sorta di griglia, di "schema" articolato, per lo più inconscio, attraverso cui affrontiamo, viviamo, interpretiamo la realtà che ci circonda, in particolare le nostre relazioni con l'Altro (e con noi stessi). Possiamo dire che il Fantasma è il modo attraverso cui il soggetto si suppone per l'Altro e come ritiene che l'Altro a sua volta lo supponga : una sorta di lente che interponiamo tra noi e il mondo e attraverso la quale filtriamo l'esperienza che ne facciamo. In altre parole, il Fantasma - che ognuno si costruisce a modo suo a partire sin dalle su più precoci esperienze di vita - è ciò che condiziona il modo attraverso cui ognuno di noi vive la propria vita, da quando è piccolo, fino a quando muore. Per Lacan, però, il Fantasma è almeno altre due cose: 1) una sorta di piattaforma "girevole" entro cui circola, si muove, "corre come un furetto", il desiderio , cercando continuamente dove collocarsi e soprattutto come uscirne; 2) una struttura che conferisce consistenza al soggetto , soprattutto quando deve affrontare ciò che non conosce, ciò di fronte a cui può sentirsi solo e perso, vale a dire il Reale , il reale soprattutto del proprio desiderio. Il Fantasma è dunque non solo ciò che ci condiziona e ci imbriglia, ma anche ciò che ci sostiene nei momenti decisivi. Lacan collega dunque il Fantasma al desiderio in quanto è attraverso di esso che il soggetto si illude di intravedere e acciuffare l'oggetto del proprio desiderio: " E' nelle maglie dell'articolazione del fantasma soggettivo che il desiderio compie i suoi giri senza trovarvi mai un punto di arresto: se è nel fantasma che il soggetto cerca da una parte l'aggancio del suo desiderio verso l'Altro, è nel fantasma stesso che vi trova dall'altra la difesa nei confronti dell'angoscia di precipitarvi del tutto ." (Lacan) Vuole dire che, se, da una parte, il Fantasma ci permette di tendere verso l'Altro , l'Altro del nostro desiderio, dall'altra, esso è anche ciò che ci permette di non "precipitarvi del tutto", per questo, nella famosa formula del fantasma ($◇⍺) , Lacan, tra il Soggetto ($) e l'oggetto del desidero (⍺) sceglie il "punzone" (◇) che indica una relazione di attrazione e di respingimento al tempo stesso. Ora, in conseguenza dell'esistenza del Fantasma soggettivo, il rapporto col mondo non può essere mai del tutto obiettivo e mai diretto, ma è sempre mediato, e dunque un po' "distorto" e "interferito" dal Fantasma stesso. E' soltanto attraverso l'esperienza psicoanalitica che si viene prima o poi a sapere di questo fantasma, e a riconoscerlo come proprio. Ed è soltanto in analisi che arrivare a riconoscere il proprio Fantasma, il poterci fare i conti, il poterlo "attraversare", come dice Lacan, ci aiutano a farci capire -e anche cambiare- molte cose di noi, il nostro modo di vivere, il nostro modo di amare e di godere, il nostro modo di stare al mondo, con i nostri simili, in maniera più sopportabile. #fantasmasoggettivo #fantasmafondamentale #desiderio #reale #esperienzasoggettiva
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