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Il tempo nella psicoanalisi lacaniana

Egidio T. Errico • nov 28, 2021

Relazione presentata alle Giornate di Studio della SIPP: "Il tempo dell'urgenza, il tempo del dolore, il tempo del pensiero" - Roma 26-27 novembre 2021

Non fare del tempo una legge, mai: è il punto di partenza per ogni cura. (S. Lippi)

 

 

La questione del tempo è cruciale nella psicoanalisi lacaniana, dal momento che non è possibile che un’analisi si avvii e proceda - faccia il suo corso - se non grazie al fatto che essa si sviluppa nel tempo, vale a dire grazie al fatto che può produrre i suoi effetti in funzione della durata che le si accorda senza prestabilirla in anticipo.

  

 In questo senso Lacan supera il paradosso freudiano del tempo di un’analisi che ha per oggetto l’inconscio atemporale. Una cosa, infatti, è il tempo dell’inconscio e un’altra cosa la durata dell’analisi.  In particolare, Lacan distingue tra il tempo cronologico, che è quello prestabilito in base alle lancette dell’orologio, e il tempo logico, che è quello che si misura sulla base del tempo che l’inconscio richiede per manifestarsi, un tempo che non si può prestabilire in anticipo.

  

 L’inconscio non conosce il tempo, e tuttavia si elabora nel tempo.

 

Un tempo non lineare, scandito dal rimo delle aperture e delle chiusure che l’inconscio, attraverso le sue interferenze, gli inciampi, le interruzioni, provoca nel discorso, questo sì, lineare dell’Io che segue invece un altro tempo e un altro ritmo.

 

 Impossibile allora far coincidere il tempo cronologico (quello della seduta) con il tempo logico (quello dell’inconscio).

 

Se riteniamo che occorra un setting temporale al paziente affinché si produca un’analisi, spesso dimentichiamo che questo non serve all’inconscio che, piuttosto, non vuole saperne di entrare a far parte del gioco delle regole che stabiliamo, pensando che sia possibile dare un ordine prestabilito all’accadimento dell’inconscio, che invece è sempre imprevedibile.

 

Una cosa dunque è il tempo della seduta, altra cosa il tempo dell’inconscio, e altra cosa ancora il tempo del soggetto. 
 

Insomma, quello che interessa a Lacan è che l’inconscio accada in seduta, e dunque che la nostra tecnica o gli standard che prestabiliamo non facciano obiezione al tempo dell’inconscio, e a che il paziente possa metterlo in parola.

  

 Per Lacan, dunque, a differenza di quanto avviene nella psicoanalisi classica, il tempo di ogni seduta deve seguire il tempo logico e non quello cronologico, principio che spiega la tanto discussa seduta variabile della pratica lacaniana.

  

 Nella psicoanalisi lacaniana, infatti, la seduta non deve avere un tempo standardizzato, né in senso "breve", né in senso "lungo", poiché l'analista, in quanto figura etica, è tenuto, non ad imporre un tempo cronologico prestabilito - prestabilito poi su quali principi? (teorici? di prassi? di scuola?) - ma a seguire il tempo logico dell’inconscio, il suo ritmo che è di apertura e chiusura.

 
Di conseguenza,
l'analista lacaniano procede operando ora le scansioni, ora le interruzioni nella catena significante del soggetto, (l’inconscio lacaniano è strutturato come un linguaggio) e tali da produrre in questi, non tanto un disvelamento di presunti contenuti inconsci, quanto un possibile effetto di "sorpresa".

 
Sorpresa di cosa? Per lo più
del soggetto stesso, che “si sorprende” tra i significanti che lo rappresentano, e poi del “reale”, vale a dire di ciò che non vuole saperne di entrare nell’inconscio rimosso – dunque nella parola - e che ha a che fare con la pulsione e con il godimento.

  

 L’analista lacaniano, dunque, interrompe il tempo della seduta nel momento in cui emerge, del tutto inattesa, una manifestazione dell’inconscio tale da richiedere, più efficacemente, il taglio della seduta, piuttosto che l’interpretazione - tanto più che il taglio è interpretazione - o l’obbligo di aspettare comunque la fine della seduta, per lo più prefissata in base al tempo cronologico, lo stesso per tutte le sedute.

  

 Un’analisi richiede tempo dunque, talvolta molto tempo, che va inteso come funzione, variabile, del tempo dell’inconscio e non come una durata dipendente dal tempo cronologico di un percorso e che si ritiene possa essere prestabilito, in anticipo, come breve o lungo, in base agli orientamenti di Scuola, piuttosto che come effetto imprevedibile di quel tempo dell’inconscio, per questo variabile in ogni paziente singolarmente considerato.

  

 In altri termini, nella pratica lacaniana, non è la durata a garantire che ci sia stata analisi, ma quello che di psicoanalitico sia accaduto al suo interno, per cui, paradossalmente, può esserci stata più analisi in un percorso di breve durata, che in uno che abbia comportato tempi lunghi o lunghissimi, così come, in base allo stesso principio, sempre nella pratica lacaniana, non è il numero delle sedute a garantire su un’analisi. Che ci sia o meno analisi - nella pratica lacaniana - è unicamente dipendente dalla particolare posizione dell’analista in relazione all’inconscio del paziente e all’emergenza del transfert, piuttosto che dal soddisfacimento o meno dei tempi formali di durata e di setting.

  

 In ogni caso, ciò che invece accomuna le analisi tradizionali con l’analisi lacaniana, e che il fattore  tempo, sia esso logico o cronologico, è considerato comunque il migliore alleato della cura, in un epoca in cui invece, come sappiamo, il fattore tempo è piuttosto considerato il peggior nemico di ogni cura che basi la propria efficacia e la propria convenienza sulla promessa di risultati certi e duraturi conseguibili nel minor tempo possibile.

  

 Non ho tempo! Non bisogna perdere tempo! L’analisi è troppo lunga, dura troppo, richiede molto tempo, sono, accanto a quelli dei suoi costi eccessivi, gli slogan – i luoghi comuni sulla psicoanalisi e la sua pratica - oggi maggiormente diffusi, effetti di una cultura che sembra assegnare sempre più efficacia  a quella moltitudine di pratiche psicoterapiche che promettono soluzioni rapide e definitive in tempi brevi o brevissimi.

  

 Le suggestioni delle più “moderne” ed “efficaci” psicoterapie cognitive e delle Neuroscienze spingono molti a ritenere che il fattore tempo, il tempo che serve affinché si produca una psicoanalisi vera e propria, classica o lacaniana che sia, sia ormai un tempo da superare, un’inutile lungaggine da destituire e dichiarare decaduta, un’estenuante perdita di tempo da evitare in favore delle più agevoli e rapide psicoterapie brevi, centrate sul sintomo sempre più inteso come anomalia da riparare piuttosto che come una formazione simbolica dell’inconscio attraverso la quale il paziente vuol dire qualcosa e vuole essere ascoltato.

  

Una clinica dell’urgenza e della “non-domanda” dunque, che, se pur richiede certamente risposte contenitive immediate nel qui ed ora dell’urgenza, non per questo ci impedisce che non si possa recuperare un tempo per l’ascolto e per un lavoro trasformativo di una domanda di aiuto che può formularsi solo attraverso la drammaticità di un’urgenza che non ammette tempo, ad una domanda che invece trovi la parola per essere formulata come richiesta che ammetta un tempo, il tempo, appunto, del dolore e il tempo del pensiero, come troviamo ben espressi nel titolo di oggi.

  

 Non a caso, nel titolo di queste giornate di studio, il primo argomento che si menziona - il tempo dell’urgenza - ammette che anche l’urgenza abbia un suo tempo, anche se un tempo contratto, quasi forcluso, e che noi però, in quanto psicoanalisti, dobbiamo tentare di far sì che diventi un tempo tollerato per il dolore e un tempo ritrovato per il pensiero. Quale altra funzione può avere oggi lo psicoanalista, attraverso la sua pratica, se non quella di cercare di dare tempo a chi non ha tempo? E a cosa può servire l’urgenza del non c’è  tempo nella nostra clinica se non ad evitare che possa esserci un tempo  per il dolore e un  tempo  per il pensiero?

  

 Da questo punto di vista non c’è differenza tra analisi classica e analisi lacaniana, giacché entrambe non possono prescindere dal fatto che un’analisi richieda tempo. Per questo io penso che, soprattutto oggi, nell’epoca in cui l’unico tempo consentito sembra essere quello sincronico dell’urgenza che fa obiezione a quello diacronico dell’ascolto, sia proprio la psicoanalisi, l’unica pratica che ancora possa consentire il recupero della dimensione di un ascolto possibile, della dimensione di quell’ascolto del soggetto di cui sempre più si sente oggi la necessità.

  

 La funzione etica dello psicoanalista - il desiderio dello psicoanalista, come direbbe Lacan - è infatti soprattutto quella - pur non arretrando davanti all’urgenza della richiesta – di favorire che il soggetto ritrovi un tempo, un tempo che gli consenta il recupero di quella parola che l’urgenza abolisce, manifestando al suo posto soltanto il rumore brutale dell’ES che, lungi dal potersi articolare come sintomo in quanto formazione simbolica, e interpretabile, dell’inconscio, può dare segni di sé solo attraverso sintomi che assumono il carattere non interpretabile della pulsione, non rimandando a nessun significante se non a loro stessi.

  

 La pratica della psicoanalisi, dunque, è pratica della diacronia, vale a dire pratica che ha una sua durata  nel tempo, un tempo che, a differenza di quanto avviene nelle psicoterapie non analitiche, non può essere prestabilito in anticipo, ma solo essere riconosciuto in après coup. Lacan qui riprende e rilancia l’insegnamento freudiano: non esiste fenomeno psichico che avvenga secondo un rapporto lineare ed immediato di causa-effetto, dal momento che egli, a partire da quanto dimostra nel suo Uomo dei lupi, ci insegna che il trauma non può produrre i suoi effetti nell’immediato, ma solo in un secondo tempo, e che sia tale da permettere di risignificare l’evento primario come trauma. Occorre dunque un tempo affinché il trauma si riveli, il tempo dell’ après coup. Anche in psicoanalisi occorre tempo affinché si comprenda quello che un paziente dice. Occorre sempre un secondo tempo e si può comprendere solo in après coup.  Per Lacan il discorso della psicoanalisi è isomorfo a quello dell’inconscio strutturato come un linguaggio, e dunque è sottoposto alla legge del significante: solo un secondo significante, quello terminale della catena discorsiva, può permettere la significazione del significante iniziale e quindi dell’intera frase. Nella psicoanalisi lacaniana anche l’inconscio, dunque, si rivela attraverso un tempo e si comprende in après coup, poiché l’inconscio della psicoanalisi non è dato una volta per tutte, essendo piuttosto dell’ordine del non realizzato  che aspetta il momento per realizzarsi.

  

Per Lacan, l’inconscio può essere compreso solo dopo che si sia manifestato, anzi dopo che, manifestatosi, sia scomparso di nuovo, come il sogno e il lapsus dimostrano: non potendo essere riconosciuto in anticipo o durante il suo accadere, l’inconscio si coglie, e si interpreta,  solo dopo, in un secondo tempo,  in après coup,  appunto. Per questo, anche il tempo dell’urgenza implica sempre un secondo tempo perché l’urgenza possa essere compresa nella sua significazione.

  

 Per Lacan l’urgenza è il reale che irrompe nella scena psichica, o in quella del transfert, e il reale può essere colto, visto, solo nell’istante in cui si rivela, per poter poi essere compreso, in un secondo tempo e prima del momento della sua conclusione. Tempo dell’urgenza, tempo del dolore, tempo del pensiero, gli argomenti “tempo” su cui ci intratteniamo oggi. Istante di vedere, tempo per comprendere, momento di concludere, gli argomenti “tempo” in Lacan. È questa le lettura che io ne faccio. 


       Per concludere, Wo Es war, soll Ich werden, dice Freud, con ciò intendendo, attraverso la traduzione che ci fornisce Lacan, che è dove il soggetto si esprime come un Es che dobbiamo far in modo che invece egli arrivi a manifestarsi come un Io, come un soggetto non più costretto al tempo contratto e improduttivo dell’urgenza delle pulsioni, ma padrone di un tempo produttivo, in analisi, vale a dire lì dove la parola trova il suo luogo per dire del dolore e per articolarvi un pensiero. Quella parola che, in quanto ritrovata e psicoanaliticamente accolta, possa riconquistare tutto il suo potere trasformativo, in quanto non più condizionata dall’urgenza del bisogno, ma sostenuta dal desiderio, poiché solo il desiderio può sopportare un dolore possibile e aprire ad un pensiero inedito. 


  

 

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Ma cos'è questo Fantasma di cui tanto si parla in psicoanalisi e non solo - anche se in altri ambiti per lo più declinato al plurale? Per dirla nella maniera più semplice possibile, il Fantasma, il Fantasma fondamentale per meglio dire, può essere immaginato come una sorta di griglia, di "schema" articolato, per lo più inconscio, attraverso cui affrontiamo, viviamo, interpretiamo la realtà che ci circonda, in particolare le nostre relazioni con l'Altro (e con noi stessi). Possiamo dire che il Fantasma è il modo attraverso cui il soggetto si suppone per l'Altro e come ritiene che l'Altro a sua volta lo supponga : una sorta di lente che interponiamo tra noi e il mondo e attraverso la quale filtriamo l'esperienza che ne facciamo. In altre parole, il Fantasma - che ognuno si costruisce a modo suo a partire sin dalle su più precoci esperienze di vita - è ciò che condiziona il modo attraverso cui ognuno di noi vive la propria vita, da quando è piccolo, fino a quando muore. Per Lacan, però, il Fantasma è almeno altre due cose: 1) una sorta di piattaforma "girevole" entro cui circola, si muove, "corre come un furetto", il desiderio , cercando continuamente dove collocarsi e soprattutto come uscirne; 2) una struttura che conferisce consistenza al soggetto , soprattutto quando deve affrontare ciò che non conosce, ciò di fronte a cui può sentirsi solo e perso, vale a dire il Reale , il reale soprattutto del proprio desiderio. Il Fantasma è dunque non solo ciò che ci condiziona e ci imbriglia, ma anche ciò che ci sostiene nei momenti decisivi. Lacan collega dunque il Fantasma al desiderio in quanto è attraverso di esso che il soggetto si illude di intravedere e acciuffare l'oggetto del proprio desiderio: " E' nelle maglie dell'articolazione del fantasma soggettivo che il desiderio compie i suoi giri senza trovarvi mai un punto di arresto: se è nel fantasma che il soggetto cerca da una parte l'aggancio del suo desiderio verso l'Altro, è nel fantasma stesso che vi trova dall'altra la difesa nei confronti dell'angoscia di precipitarvi del tutto ." (Lacan) Vuole dire che, se, da una parte, il Fantasma ci permette di tendere verso l'Altro , l'Altro del nostro desiderio, dall'altra, esso è anche ciò che ci permette di non "precipitarvi del tutto", per questo, nella famosa formula del fantasma ($◇⍺) , Lacan, tra il Soggetto ($) e l'oggetto del desidero (⍺) sceglie il "punzone" (◇) che indica una relazione di attrazione e di respingimento al tempo stesso. Ora, in conseguenza dell'esistenza del Fantasma soggettivo, il rapporto col mondo non può essere mai del tutto obiettivo e mai diretto, ma è sempre mediato, e dunque un po' "distorto" e "interferito" dal Fantasma stesso. E' soltanto attraverso l'esperienza psicoanalitica che si viene prima o poi a sapere di questo fantasma, e a riconoscerlo come proprio. Ed è soltanto in analisi che arrivare a riconoscere il proprio Fantasma, il poterci fare i conti, il poterlo "attraversare", come dice Lacan, ci aiutano a farci capire -e anche cambiare- molte cose di noi, il nostro modo di vivere, il nostro modo di amare e di godere, il nostro modo di stare al mondo, con i nostri simili, in maniera più sopportabile. #fantasmasoggettivo #fantasmafondamentale #desiderio #reale #esperienzasoggettiva
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