Nelle Associazioni Psicoanalitiche classiche, quelle per intenderci che si riconoscono nei principi e nei canoni stabiliti dalla International Psychoanalytic Association (IPA)
, la formazione degli psicoanalisti
deve seguire un corso ben definito, rigorosamente tracciato da norme precise, e rigidamente assoggettato a parametri logici e cronologici che ne scandiscano tappe, frequenza partecipativa e durata, norme che valgono ovviamente nella stessa misura, e senza eccezioni, per tutti indistintamente.
Il tragitto formativo è dunque istituzionalmente predefinito, e si compone di tre assi di percorso, ognuno altrettanto rigidamente normato, e che devono compiersi per lo più contemporaneamente:
1) l'asse dell' analisi cosiddetta didattica, la quale deve rispondere in genere ai seguenti criteri: a) essere svolta solo con un analista, cosiddetto "didatta", scelto tra una rosa di analisti abilitati e designati dall'Istituto; b) avere una frequenza di sedute settimanali prestabilite e generalmente, a seconda dei diversi Istituti, non inferiori alle tre o quattro a settimana; c) durare un certo numero di anni, anche questo prestabilito dai vari Istituti, ma che in genere è di almeno quattro;
2) l'asse delle supervisioni, anche queste rigidamente normate in tutti i loro aspetti di numero, durata, frequenza e addirittura di sedute che il paziente portato in supervisione deve fare con l'allievo in supervisione;
3) l'asse del cosiddetto training
, vale a dire la partecipazione ad un corso teorico-clinico di insegnamento dei vari aspetti della cultura psicoanalitica in genere, del pensiero di Freud e dei suoi seguaci, degli orientamenti psicoanalitici più rappresentativi, della teoria e della tecnica psicoanalitica, eccetera, anche questo rigorosamente definito da orari, frequenze, e per la durata per lo più di almeno quattro anni. Il training generalmente è variamente affiancato, e integrato, a seconda dei diversi Istituti, da esperienze di tirocinio annuale presso Servizi pubblici di Salute mentale o affini, dalla partecipazione a gruppi cosiddetti "esperenziali", da eventuali seminari di approfondimento, nonché dalla partecipazione -per lo più obbligatoria- a convegni, giornate di studio o altre iniziative scientifiche organizzate dalle diverse Associazioni cui l'Istituto formativo fa riferimento, e da eventuali altri eventi ancora, a seconda dei vari Istituti. Il tutto al fine di favorire nell'allievo la costruzione di quel sapere sulla psicoanalisi che ogni futuro psicoanalista dovrebbe possedere e padroneggiare.
In Italia, e solo in Italia, inoltre, essendo tutti gli Istituti di formazione per psicoanalisti diventati ormai anche Istituti legalmente riconosciuti dal Ministero della Università e Ricerca (MIUR) come Scuole di specializzazione per l'esercizio della psicoterapia - cioè idonee a rilasciare quel titolo di abilitazione all'esercizio della psicoterapia che in Italia è reso obbligatorio - alle norme già previste dall'Istituto, si aggiungono quelle ulteriormente richieste dal MIUR: altre materie di insegnamento, ulteriori ore di tirocinio annuale, ulteriori regole di partecipazione ai tirocini, ulteriori requisiti per i docenti, obbligo di report annuali al MIUR comprovanti gli aspetti qualitativi, e quantitativi, dell'andamento dei corsi, degli esami, dei docenti, eccetera, eccetera.
Tutto questo insieme di norme e di standard formativi, che devono comunque trovare il miglior modo per integrarsi senza ostacolare troppo il percorso formativo, anzi per poterlo al meglio tutelare, deve in più tener conto anche di tutta una serie di incompatibilità tra le figure formative a diverso titolo coinvolte, e anche tra le diverse esperienze dell'allievo: incompatibilità che sono stabilite proprio al fine di garantire i massimi livelli di "purezza" della formazione del candidato, e di evitare quindi possibili, inaccettabili, contaminazioni tra i diversi momenti formativi. Ragion per cui in genere viene stabilito, più o meno da tutti gli Istituti di formazione psicoanalitica, e tranne piccole variazioni tra Istituto e Istituto, che:
-l'analista di un allievo non può esserne anche il docente;
-l'analista di un allievo non può esserne neanche il supervisore, non solo durante l'intero corso dell'analisi, il che sarebbe pure logico, ma, in molti casi, neanche dopo che l'analisi si sia conclusa;
-il supervisore non può essere anche relatore della tesi di specializzazione dello stesso allievo;
-il momento della analisi deve essere rigidamente separato dal momento della supervisione (le due esperienze non si possono "contaminare" tra loro);
-l'esperienza dell'analisi, quella della supervisione e quella dell'insegnamento devono essere altrettanto distinte tra di loro e le figure dell'analista, del supervisore, del docente e del tutor di classe (dove previsto) o individuale (dove previsto) non possono mai coincidere per lo stesso allievo.
La necessità di garantire la supposta "purezza" dei singoli momenti formativi in maniera che non si contaminino tra di loro, facendone, di ciascuno, una sorta di "compartimento stagno", richiede, da parte degli Organi societari preposti, un continuo lavoro di verifica, adeguamento, controllo e monitoraggio del funzionamento, del rispetto e dell'efficacia degli standard formativi prestabiliti, con un dispendio enorme di tempo e di energie.
Di conseguenza, negli Istituti di formazione per psicoanalisti organizzati secondo gli standard e i criteri descritti, finisce per instaurarsi, nella vita societaria, un funzionamento sempre più ossessivamente concentrato sugli aspetti formali, sulle regole, sulla ottimizzazione continua degli standard formativi, più che sui contenuti di sapere, in quanto ci si convince sempre più che la corretta formazione di uno psicoanalista può essere garantita soprattutto dal rispetto puntiglioso di regole minuziosamente stabilite e opportunamente standardizzate, nonché normando rigidamente ogni minimo passaggio del percorso formativo dell'allievo, attraverso verifiche per lo più degli standard quantitativi, più che della qualità del sapere man mano maturato di ogni singolo allievo.
Dal momento però che quello di standard è un concetto puramente teorico - e immaginario - in quanto, come l'esperienza dimostra, la sua applicazione pratica lascia sempre fuori qualcosa, esso presenterà sempre una falla, un "cavicchio", attraverso il quale passerà comunque quell'elemento di impurità che lo standard avrebbe dovuto impedire. E dunque, di qui, il via a ulteriori aggiustamenti e perfezionamenti di quello standard che ha dimostrato la sua debolezza, perfezionato il quale ne sarà pronto un altro a mostrare il suo limite o la sua imperfezione, ripetendosi così all'infinito il lavoro del continuo adeguamento.
Questo modo allora di concepire la corretta formazione degli analisti, lungi evidentemente dal garantire molto sul piano formativo, affidato com'è a standard di ordine quantitativo, è nella mia percezione piuttosto un sintomo: il sintomo di quella malattia che si chiama la malattia della Idealità. Le Società Psicoanalitiche che si riconoscono nell'IPA ne sono a mio avviso, e per esperienza personale, profondamente affette, in quanto il sintomo dell'Idealità è fortemente sostenuto dall'idea di essere le dirette discendenti del Padre Freud che le ha fondate suggerendone i principi, tanto è vero che si sono sempre considerate le depositarie uniche del Sapere psicoanalitico così come direttamente trasmesso da Freud, e dunque le sole depositarie del Canone formativo ideale. Non a caso, si sono sempre definite "freudiane ortodosse": è stato proprio questo il motivo per cui, un po' di anni fa, fu radiato, da una di queste chiese ortodosse del freudismo, un certo dottor Jacques Lacan, che ortodosso non riusciva proprio ad essere. Lacan infatti si manifestò come un eretico sovversivo, pur attribuendosi lui il modo corretto di leggere, intendere e di "ritornare" a Freud: "è la mia eresia, non la vostra ortodossia che conduce a Freud", sembrò dire Lacan, con la "scomunica" che però ne conseguì. Quello che è accaduto successivamente nella storia della psicoanalisi dimostra chi allora avesse ragione!
Ma a cosa può ricondursi questa vera e propria ossessione per la Idealità, per la formazione ideale e rigorosamente ortodossa degli analisti, per la "purezza ideale" della loro formazione, affidata, come abbiamo visto, a regole prestabilite e standardizzate, meticolosamente e puntualmente verificate? Probabilmente a quegli stessi “ideali" che sono posti come esiti della corretta pratica analitica ortodossa, e che sono essenzialmente tre: 1) l’ideale dell’amore genitale
inteso come quello in cui si realizzerebbe appieno la relazione oggettuale ; 2) l’ideale dell’autenticità, nel senso che, essendo quella analitica una tecnica di "smascheramento", non può che condurre il soggetto alla sua autenticità più piena e genuina e alla sua verità senza veli e inganni; 3) l’ideale dell’autonomia
, in virtù del quale il soggetto può arrivare alla felice condizione del superamento di qualsiasi vincolo di dipendenza dall'altro.
E' come se gli obiettivi della formazione degli psicoanalisti nelle Società psicoanalitiche cosiddette ortodosse fossero del tutto conformi a quelli del percorso analitico classico, così come concepito appunto in seno alle stesse: i futuri analisti saranno riconosciuti come tali sulla base di quegli ideali di "amore genitale", di "maturità" e di "autonomia" che avranno saputo dimostrare di aver conseguito.
Sarà invece proprio Lacan, l'eretico, lo "scomunicato" a mettere in guardia gli analisti dal cedere a queste mire idealizzanti, che non possono che portare invece il paziente - e il futuro analista - ad una sorta di "ortopedizzazione" idealizzata degli assetti di funzionamento del proprio Io, e non al proprio desiderio inconscio, che è il vero oggetto della psicoanalisi freudiana, da entrambe le posizioni - dell'analizzante o dell'analista - attraverso le quali la si affronti..
Lacan, rifacendosi pienamente a Freud è stato chiaro su questo: non è l'Io con le sue funzioni, ma il soggetto con il proprio desiderio, il vero "oggetto" della psicoanalisi , in quanto è da lì, dal proprio desiderio rimosso, e "dimenticato", e non dall'Io, che l'essere umano parla e soffre.
Gli analisti, invece - imboccando di conseguenza la strada della deriva da Freud, e non quella del solco da lui tracciato -, hanno erroneamente visto nel famoso enunciato di Freud: " Wo Es war, soll Ich werden" la raccomandazione a lavorare sull'Io, come apparato, e dunque a lavorare sulle sue funzioni e sull'insieme dei suoi meccanismi di difesa, oggettivandolo come "organo da curare" per potenziarne le funzioni, come infatti vediamo attraverso le "tecniche" dei sostenitori della Ego psychology, e attraverso quelle dei cosiddetti post-freudiani, i quali, continuando in questa direzione, si sono progressivamente spinti fino al limite delle psicoterapie cognitiviste, e finanche delle cosiddette neuroscienze, cioè fino a quanto di più lontano ci sia dalla psicoanalisi di Freud.
In altre parole, la psicoanalisi dei post-freudiani si è andata sempre più configurando come un insieme di tecniche finalizzate a rafforzare l'Io del paziente, piuttosto che analizzarne l'inconscio
come luogo del desiderio rimosso e delle pulsioni
irrapresentabili.
Lacan si oppone invece, come si sa, a questa deriva e restituisce la frase al suo vero significato: nota che Freud omette a Ich l'articolo, non parla cioè dell'Io, come istanza o come funzione, ma di Io come soggetto. Non dice: "soll das Ich werden", ma: "soll Ich werden", non dice: "dove era Es deve diventare l'Io", ma dice: "dove era l'Es devo diventare Io". Il che cambia tutta la prospettiva del lavoro analitico: in quanto analisti non dobbiamo lavorare affinché l'Io si sostituisca all'Es , ma affinché Io mi possa soggettivare sul mio Es, sulle mie pulsioni , in particolare sulla pulsione di morte , facendovi i conti alla men peggio, in quanto soggetto e non in quanto un io. Questa è l'analisi freudiana, dalla quale le correnti post freudiane si sono sempre più allontanate, e alla quale noi, in quanto analisti che si ispirano a Freud, dobbiamo invece ritornare.
Lacan inizia così, proprio dalla "scomunica" subita, il percorso del suo ritorno a Freud.
Se teniamo presente la diffusione a livello mondiale del movimento di psicoanalisti che si è costituito intorno a lui e al suo insegnamento, non possiamo certo dire che Lacan non sia stato creduto, tant'è che è stato infatti riconosciuto come il grande psicoanalista del " ritorno a Freud ".
Conseguentemente, anche il percorso formativo degli analisti che vogliono esercitare la loro pratica all'interno del cosiddetto Campo freudiano - il campo cioè di quella pratica analitica indicata da Lacan come la psicoanalisi del soggetto dell'inconscio e che Freud ci ha consegnato attraverso la corretta lettura della frase "Wo Es war, soll Ich werden"- è allora radicalmente diverso da quello stabilito dall'IPA.
La formazione degli psicoanalisti lacaniani - o di coloro che comunque riconoscono nell'insegnamento di Lacan la direzione corretta per ritrovare la psicoanalisi che Freud ci ha trasmesso, in quanto psicoanalisi dell'inconscio e non dell'Io - non può dunque né mirare al rafforzamento di un "Io psicoanalitico" che si ritenga più o meno colto e intellettualizzato, ben formato e "resistente", sufficientemente "competente" perciò del mondo psichico del proprio simile e di quello che vi succede, e dunque in grado di poterlo "analizzare" - cosa impossibile poiché un io non può che essere competente di un altro io solo nel riflesso immaginario all'interno del quale si costituisce (per questo, in analisi, lo psicoanalista non può entrarvi come un io, né può supporre di poter analizzare un io, in quanto, essendo l'io solo il rispecchiamento dell'altro, analizzare un io significa solo analizzare, nell'immaginario, il proprio io, credendolo dell'altro) - né porsi l'obiettivo di favorire una "identità" psicoanalitica conforme alle aspettative della Scuola in questione e tale da permettere a coloro che l'abbiamo frequentata di riconoscersi attraverso il "titolo" di cui si viene investiti.
La formazione dello psicoanalista lacaniano, piuttosto, procede, possiamo dire, per "via di togliere": passa inevitabilmente attraverso la messa in discussione di qualsiasi sapere universitario in cui ci si possa più o meno identificare, e significa non promuoversi come un soggetto "istituzionalizzato", ma al contrario potersi consentire quel procedimento di messa in discussione di sé e di disidentificazione dal sapere che ci si attribuisce e dalle istituzioni in cui aderisce, e che Lacan chiama di di "destituzione soggettiva", dal momento che la materia di cui si tratta è l'inconscio, vale a dire ciò che, per definizione, manca e sfugge a qualsiasi pretesa conoscitiva, a qualsiasi pretesa di competenza, prestabilite, ma che al contrario, richiede la possibilità, per l'analista che voglia interessarsene, di sostenersi come "soggetto di non sapere", come soggetto vuoto, come soggetto scarto, solo supposto nel suo sapere e in grado di lasciarsi sussistere, nell'orizzonte del transfert, come un mero significante ("un significante qualunque", lo definirà Lacan). A questo deve mirare la formazione dello psicoanalista lacaniano, soprattutto attraverso la sua analisi personale. Lo psicoanalista lacaniano è colui che deve saper vacillare nelle proprie certezze di sapere e identitarie, saperle opportunamente mettere da parte, pur sapendo costituire, proprio su tale destabilizzazione, la stabilità della sua posizione di analista, la capacità di tenere - e con rigore - la barra della direzione della cura, vale a dire i cardini della sua prassi, cardini che sono etici dunque, e non di sapere.
Di conseguenza, l'analisi dello psicoanalista lacaniano della Scuola, pur nel rigore del suo specifico di analisi dell'inconscio, non è affidata a regole minuziose e standardizzate uguali per tutti e stabilite "dall'alto", ma ad una esperienza soggettiva di percorso che rispetta, accoglie e riconosce i tempi e i modi di portarla avanti di ciascuno, di uno per uno, a patto che sia posta al centro del percorso formativo nella Scuola, in quanto: " non si diventa analisti se non attraverso la propria analisi condotta fino in fondo".
E qui " propria analisi " significa davvero propria analisi: l'analisi che ognuno si "merita" in termini di frequenza e durata e non l'analisi con tempi e modi stabiliti dalle gerarchie istituzionali. Propria analisi non significa però, in nessun caso, arbitrarietà e improvvisazione secondo le opportunità e le convenienze personali e secondo il principio che "ognuno fa come gli pare". Propria analisi significa essere nell'unica esperienza analitica possibile: quella sostenuta dal proprio desiderio, desiderio che non può che muovere da dove si soffre e che è di per sé l'unico garante di quell'etica soggettiva che può fare del proprio percorso formativo in percorso "rigoroso", sia pure non standardizzato.
Quello che si richiede, dunque, non è la subordinazione a standard rigidamente prestabiliti, ma che l'analizzando, detto ora analizzante
in quanto è lui che in effetti lavora sul proprio inconscio, riesca a dimostrare, e a convincere, attraverso una procedura particolare e impegnativa detta passe
- che è una procedura di testimonianza pubblicamente resa ai colleghi, soprattutto a quelli che stanno più indietro, e non a coloro che stanno più avanti - del perché egli si possa ora dichiarare analista, perché cioè dalla posizione di analizzante può dire di essere passato a quella di analista.
Un percorso formativo dunque che -riprendendo il titolo dell'articolo scritto sull'argomento da Romildo Do Rego Barros (La Psicoanalisi n. 35 , 2004) è sì " senza standard, ma non senza principi ".