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Il paziente Borderline: una questione controversa. La prospettiva lacaniana

Egidio T. Errico • feb 25, 2021

Relazione presentata agli Incontri Scientifici della Sezione regionale della SIPP il 24/02/2021

Il paziente borderline: una questione controversa. La prospettiva lacaniana.

Egidio T. Errico

 

La posizione lacaniana nell’inconscio e nella direzione della cura.

Jacques Lacan è conosciuto come lo psicoanalista del ritorno a Freud, in particolare - più precisamente - del ritorno al Freud della Prima Topica, al Freud dell’analisi dell’inconscio. Lacan è conosciuto anche come lo psicoanalista dell’inconscio strutturato come un linguaggio, per questo interpretabile.[1]


Per Lacan però, a differenza di Freud, l’inconscio non si rivela in un campo esterno già dato, come quello delle formazioni dell’inconscio, bensì nel campo stesso della cura. La vera formazione dell’inconscio è la parola nel momento stesso in cui viene pronunciata e riferita all’analista e sotto transfert: perché nelle parole vi è sempre qualcosa di più di quello che si vuole dire e che si crede di esprimere.

 

Se l’inconscio è nella parola è però, al tempo stesso, anche ciò che alla parola si sottrae, essendo anche dell’ordine dell’impossibile a dirsi.[2]

 

Lacan riserva il termine di psicoanalisi solo a quel procedimento in cui l’analista occupa una precisa posizione nell’inconscio così riconsiderato, e questo, a mio avviso, almeno per sei ragioni:


Prima ragione: la psicoanalisi è l’effetto della scoperta freudiana dell’inconscio.


Seconda ragione: il soggetto che interessa alla psicoanalisi è il soggetto inconscio.


Terza ragione: la psicoanalisi consiste nell’interpretazione dell’inconscio, di conseguenza si occupa, non di quello che c’è[3], ma di quello che non c’è[4], di ciò che manca.


Quarta ragione: lo psicoanalista, pertanto, si trova di fatto ad operare dalla posizione di non sapere.


Quinta ragione: la psicoanalisi opera sul particolare soggettivo, singolare, di ogni paziente, uno per uno considerato, per cui la salute a cui conduce non può essere stabilita in anticipo, ma è quella che ogni singolo paziente è in grado di ritrovare come propria, e non in quanto prestabilita dall’Altro.


Sesta ragione: in psicoanalisi, pertanto, non è applicabile il concetto di guarigione in termini di una restitutio ad integrum, in quanto non si tratta, come è il caso delle comuni terapie, di riportare il paziente allo status quo ante, ma ad un dopo che non sarà mai come un prima.


 Questi i criteri che, per Lacan, fondano lo statuto della psicoanalisi del cosiddetto Campo Freudiano, e che la distinguono dalle altre psicoterapie, in particolare dalla Psicologia dell’Io nordamericana, che è psicoanalisi dell’Io e non dell’inconscio.


A questi criteri se ne aggiunge però un altro, particolare, e che riguarda la modalità dell’ascolto dello psicoanalista lacaniano e, specificamente, della sua posizione in analisi.


Noi tutti sappiamo che la psicoanalisi è la pratica dell’ascolto. Ora, Lacan, nell’arco di tutto il suo insegnamento, non ha mai smesso di ricordarci di quale ascolto però si tratta: di un ascolto che deve fare spazio interamente e soltanto alla parola del paziente senza farvi ostacolo. Solo in questo modo potrà impiantarsi il transfert, che è il vero motore della cura.


L’analista deve stare perciò molto attento a non entrare nella scena del lavoro d’analisi con i propri aspetti di persona, né in quanto un io, che sarebbe in tal caso entrarvi come figura duale propria dell’asse immaginario. L’analista deve sapersi invece costituire come figura terza, come l’Altro non speculare che occupa il luogo del Simbolico, il solo dal quale può lasciarsi suppore un sapere[5], senza identificarsi con quanto il paziente gli suppone. Specchio opaco, enigmatico, e non specchio riflettente, dunque.


Di conseguenza, per Lacan, l’analisi non è una terapia interpersonale, non si tratta di uno scambio dialettico tra due soggetti in relazione tra di loro: in analisi - dice - il soggetto è uno solo, il paziente (che Lacan chiama analizzante), assumendo l’analista, piuttosto, la posizione dell’oggetto, di un oggetto d’uso, un oggetto scarto, e tenendo per sé la sola direzione della cura - della cura, non del paziente - e la responsabilità del proprio atto analitico, in quanto quella dell’analista è una pratica etica e non una tecnica.


Per queste ragioni, l’analisi lacaniana si distingue non solo dalle cosiddette psicoterapie della intersoggettività, ma anche da quegli approcci basati sull’uso del controtransfert o dell’empatia, in quanto aspetti, questi ultimi, propri dell’asse immaginario, dunque dell’analista e non del paziente, e che farebbero pertanto obiezione al transfert dell’analizzante.

 

La questione borderline.

Quello del cosiddetto paziente borderline è un tema controverso in psicoanalisi, non solo per la difficoltà che presenta ai fini del suo inquadramento teorico e clinico, ma anche perché sembra che esistano, oggi, diverse teorie psicoanalitiche sull’argomento. Per esempio, alcuni ritengono che la diagnosi borderline o di caso limite riguardi una struttura nosografica a sé stante, altri una possibile manifestazione clinica tanto delle nevrosi quanto delle psicosi, senza arrivare a delinearsi come entità clinica indipendente o intermedia tra le due.


Comunque, sembra prevalere la tendenza a considerare il caso borderline come un disturbo di Personalità con caratteristiche cliniche ben precise e distinte da quelle delle nevrosi, delle perversioni e delle psicosi. Infatti, il Disturbo Borderline di Personalità, come quello Narcisistico, sono diagnosi oggi molto frequenti, tanto in psichiatria, quanto in diversi indirizzi psicoanalitici, al punto da avere l’impressione che si tratti, più che di diagnosi precise, di due contenitori in cui vada a finirci di tutto, soprattutto quando non si sa da quale versante collocare il paziente in questione, se da quello nevrotico, da quello perverso o da quello psicotico.


Nella prospettiva lacaniana, invece, la diagnosi di Disturbo borderline non è possibile come diagnosi che rimandi ad una categoria psicopatologica a sé stante, in quanto diagnosi fenomenologica, basata prevalentemente sull’osservazione del fenomeno “sintomo” nel qui e ora dell’incontro. In psicoanalisi, invece, la diagnosi è piuttosto un effetto dell’ascolto di quello che il paziente, sotto transfert, dice all’analista: la diagnosi psicoanalitica non è mai una diagnosi fenomenologica, della sincronia, ma si produce solo nella diacronia, nel tempo e nel campo della cura. Tant’è che è proprio la clinica psicoanalitica a permettere di renderci conto che, nel tempo, una diagnosi può anche cambiare, che, per esempio, un paziente inizialmente ritenuto nevrotico, dopo un po’ potrebbe rivelarsi invece psicotico, o viceversa.


L’ascolto psicoanalitico, che è sempre ascolto di altro rispetto a ciò che il paziente sembra dire, permette invece di puntare, nel tempo, al cuore della struttura soggettiva inconscia del soggetto, e quindi una diagnosi, non di personalità - che Lacan considera peraltro una nozione puramente immaginaria - ma di struttura. 

                   

Ora, le strutture inconsce di cui si tratta in psicoanalisi si riducono alle tre diverse organizzazioni psicopatologiche della nevrosi, della perversione e della psicosi, le quali, se pure possono presentare sintomatologie comuni, sul piano strutturale sono ben distinte tra di loro, in quanto ciascuna effetto di uno dei tre diversi modi attraverso cui un soggetto ha preso posizione nei confronti della castrazione originaria: se nel modo della Verneinung, come è il caso delle nevrosi - dove la castrazione è comunque primariamente ammessa (Bejahung) per poi essere rimossa - oppure della Verleugnung che presiede alle perversioni, o infine della Verwerfung che è il regime della psicosi, nelle quali dunque la castrazione non è primariamente riconosciuta, ma direttamente rigettata.


Di conseguenza, dovremmo stabilire come quel paziente, che sul piano della clinica abbiamo diagnosticato border, si sia in effetti primariamente organizzato sul piano della struttura, al di là dei sintomi che presenta, se sia cioè un nevrotico, un perverso o uno psicotico, poiché, su questo piano, o si è sotto il regime della Verneinung (nevrosi), o della Verleugnung  (perversioni), o sotto quello della Verwerfung (psicosi), dal momento che la castrazione originaria non può essere al tempo stesso rimossa, negata e rigettata.


Non può diventare psicotico chi vuole, dice Lacan, con ciò intendendo appunto che o si è nevrotici, o perversi o psicotici, o non si è niente di tutto questo, e che per diventare psicotici bisogna già esserlo.


Di conseguenza, quella di borderline dovrebbe essere una diagnosi provvisoria e non definitiva, sintomatica e non di struttura.


A mio avviso, le diagnosi di Disturbo Borderline e di Disturbo Narcisistico di Personalità sono solo dei modi per evitare di nominare la psicosi, dal momento che una diagnosi di psicosi è imbarazzante e socialmente compromettente, poiché comunemente confusa con la follia, ma la verità è che non tutti gli psicotici sono anche folli, come non tutti i folli sono anche psicotici. Il borderline è spesso uno psicotico ma non necessariamente un folle.


Per questo, in psicoanalisi, dovremmo stare molto attenti con le diagnosi, dal momento che se, da una parte, come abbiamo visto, possono servire ad orientare il nostro approccio soprattutto agli inizi della cura, dall’altra possono indurci ad ingabbiare il paziente in quella sorta di identità psicopatologica che gli attribuiamo e attraverso la quale ci sembra di poterne sapere di più sul suo conto. Il mio pensiero è che se una diagnosi può servire, al tempo stesso lo psicoanalista dovrebbe anche saperne fare a meno, perché ogni paziente vale, non in funzione di un codice assegnato, ma per il suo nome proprio, e dunque ogni caso vale nella sua singolarità, nel suo essere uno per uno, nella sua nominazione e non nella sua nosografia. Per questo, il sapere della nostra clinica non è quello che proviene dalla diagnosi, ma quello che si produce nel transfert: in analisi, è il transfert che ci conduce al sapere, non la diagnosi.


La concezione lacaniana della psicosi.

Lacan s’interessa dei cosiddetti casi-limite durante il periodo del Seminario III sulle psicosi (1955-56)[6], a partire dall’importante lavoro di H. Deutsch “Su un tipo di pseudo-affettività (come se) [7], lavoro che Lacan aveva letto con molto interesse nella versione inglese del ’42, e di cui tenne conto nella elaborazione che egli fece delle psicosi, sia nel citato Seminario III, sia nello scritto “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”[8].


La Deutsch descrive di pazienti che si comportano come se fossero del tutto normali. Tuttavia, ad una osservazione più attenta, ella dice “lo stesso profano percepisce che c'è qualcosa di strano che giustifica la domanda: «cosa c'è che non va?», trattandosi evidentemente di pazienti che in effetti intimamente soffrono di un senso generale di insoddisfazione, oppure di vuoto, o di noia o di incapacità ad assaporare la benché minima felicità, vissuti che Lacan riconduce, con un’espressione molto suggestiva, ad un disordine provocato nella più intima struttura del sentimento della vita nel soggetto.[9]


La Deutsch lasciò in sospeso la questione, della diagnosi, che invece Lacan riprese per elaborare la sua posizione sulla psicosi e per  giungere alla conclusione che non occorre che esista una evidenza clinica di tipo psicotico perché si possa escludere che un soggetto psicotico invece lo sia.


Per Lacan, una psicosi può passare inavvertita, o dare di sé soltanto segni minimi, discreti, o anche semplicemente limitati a quel “qualcosa che non va” segnalato dalla Deutsch, poiché non basta, per scatenarla, la Verwerfung della castrazione, con la conseguente mancata iscrizione nel soggetto di quella funzione logica che Lacan chiama il Nome-del-Padre, e che presiede come si sa all’ordine Simbolico. Uno psicotico, infatti, benché sotto il regime della Verwerfung, può comunque riuscire a servirsi - anche per tutta la vita - di qualsiasi formazione sintomatica in funzione di supplenza del Nome del Padre forcluso, almeno fino a quando un evento terzo, che richieda di poter essere simbolizzato, non disponendo il soggetto proprio del simbolico, non sarà in grado di scatenare la psicosi nella sua forma conclamata.[10]


In molti casi, l’evento terzo mette brutalmente allo scoperto il buco lasciato dalla forclusione del Nome-del-Padre nel luogo dell’Altro, e quindi, l’assenza della funzione logica della simbolizzazione, che permetterebbe di dare senso e significato sostenibili al nuovo che si avvicina. Per esempio, eventi come un matrimonio, oppure la nascita di un figlio, in assenza della possibilità  di poter disporre del simbolico, possono apparire come esperienze nel reale non simbolizzabile, e quindi minacciose, perturbanti e fonte di angosce di destrutturazione. Di qui le crisi che Lacan chiama di prescatenamento psicotico con i tentativi di autoguarigione sintomatica e le richieste di aiuto.


Una sistemazione: la psicosi ordinaria.

La clinica psicoanalitica dei nuovi sintomi ci mette dunque di fronte alla questione della psicosi, mostrandoci come questa possa manifestarsi oggi in forme diverse, a volte clinicamente poco evidenti, altre invece con una varietà e mutevolezza di sintomi tali da giustificare il ricorso, sul piano fenomenologico, alla diagnosi di Disturbo borderline di Personalità, considerata come categoria psicopatologica a sé stante.


Come fa notare lo psicoanalista lacaniano Sergio Sabbatino, la clinica contemporanea ci segnala cambiamenti significativi nel campo della psicopatologia: “tutti gli indirizzi postfreudiani, come anche quello lacaniano, testimoniano in vari modi di questi mutamenti: un ampliamento del campo delle psicosi, una correlativa riduzione di quello delle nevrosi, la proposta di categorie intermedie: borderline, psicosi bianche, fredde, stati limite, patologie narcisistiche. A cui si aggiungono i cosiddetti nuovi sintomi specifici dell’ipermodernità.[11]


Jacques-Alain Miller propone il sintagma di Psicosi Ordinaria per designare un’area della clinica delle psicosi “aperta” al contributo di chiunque, praticando la clinica psicoanalitica, possa apportarvi la propria esperienza attraverso la descrizione di nuovi casi clinici non ancora classificabili, o considerati rari, o che possano aver sortito un particolare effetto di sorpresa[12].


L’Autore, in altri termini, invita a ritenere “provvisorie” le diagnosi di disturbo borderline, registrandole come psicosi ordinarie, almeno fino a quando la clinica non permetterà di riconoscere se si tratta di nevrosi, di perversioni o di psicosi, e intanto procedendo, nella cura, con la stessa cautela comunque dovuta alle psicosi. Infatti, con pazienti che, come Andrea e Serafino, non sembrano disporre del simbolico, un approccio psicoanalitico classico - l’analista in funzione di terzo sul piano del simbolico - potrebbe configurarsi proprio come quell’evento terzo in grado di scatenare una psicosi finora passata inosservata o scambiata per una nevrosi.

 

Tanto più l’approccio classico non sarebbe opportuno perché, in questi casi, il sintomo si muove, come sappiamo, non lungo la linea della significazione, ma lungo quella del godimento, vale a dire della pulsione. Non è in gioco, nel sintomo psicotico, la rimozione, né la legge sostitutiva del significante, come avviene invece nelle nevrosi, ma la funzione di tenuta soggettiva. La progressione del sintomo non è metaforica bensì metonimica, secondo l’andamento della simultaneità sincronica dell’olofrase, e arrivando a costituirsi, oltre che come difesa, anche come nuovo modello identitario. Ci troviamo, di conseguenza, a doverci confrontare con formazioni sintomatiche che sfuggono alla logica della domanda, e dunque che si sottraggono al transfert, anzi vi fanno obiezione. Sintomi che non rimandano a significati nascosti e che non sono, come invece quelli nevrotici, dell’ordine della interrogazione soggettiva rivolta all’analista come l’Altro del Sapere: “che vuol dire ciò?”, essendo piuttosto quelle supportiva e del saperci fare, più che quella interpretativa, le funzioni che questi pazienti sollecitano al proprio analista.

 

Conclusioni.

Sembra che la nuova sfida che, attraverso le nuove forme cliniche e del malessere soggettivo, la psicosi indirizzi oggi alla nostra pratica di psicoanalisti, sia quella di destinarci, ora una sofferenza senza domanda (come è il caso delle grandi sindromi dell’angoscia, degli attacchi di panico, delle addiction e dei comportamenti autodistruttivi), ora, al contrario, una domanda senza sofferenza, dal momento che, come sembra, esistono anche individui che riescono a ingabbiarla nel sembiante di un funzionamento anche del tutto normale. Anzi, sembra che siano proprio questi nuovi modi di esprimersi della sofferenza umana, e della psicosi, a garantire, paradossalmente, funzionamenti soggettivi anche particolarmente efficienti, che esista cioè una normalità assicurata dalla psicosi in assenza di sintomi[13], e tale da passare anche del tutto inosservata, se non fosse per quel qualcosa che non va, o per quel disordine provocato nella più intima struttura del sentimento della vita nel soggetto, se non fosse cioè per quell’intima sofferenza, talvolta appena avvertita, spesso negata o anche mascherata da sintomi per lo più  vaghi e impercettibili, che sembra essere, purtroppo, così tipica del nostro tempo, e di tanti nostri pazienti.


 

 

Napoli, 24 febbraio 2021


 
[1] Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi” (relazione che Lacan presenta al Congresso tenutosi all’Istituto di Psicologia dell’Università di Roma nell’autunno del 1953).

[2] “Seminario XI, I quattro concetti fondamentali (1954)” e “Posizione dell’Inconscio” (1963)

[3] Com’è invece il caso della psicologia e di molte psicoterapie.

[4] Lacan, infatti, definirà l’inconscio anche come il non c’è, per dire ciò che è dell’ordine dell’irrealizzato, e anzi arriverà a considerare l’inconscio come ciò che fa capolino nel discorso come un battito di ciglia, come ciò che si apre per subito richiudersi e che si coglie, più che nel momento del suo apparire, in quello della sua scomparsa.

[5] Lacan, infatti, definisce l’analista in relazione al proprio analizzante come il “Soggetto Supposto Sapere”

[6] J. Lacan, Il Seminario. Libro III, Le psicosi, 1955-56, Einaudi, Torino 1979

[7] H. Deutsch in “Su un tipo di pseudo-affettività (come se)”, relazione presentata il 24 gennaio 1934 alla Wiener psychoanalytischen Vereinigung e pubblicata lo stesso anno nell’“Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse” (XX, 3) -una seconda edizione sarà pubblicata nel 1942

[8] J. Lacan , Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, pag. 530, Einaudi, Torino 1974

[9] J. Lacan, op. cit, pag. 555

[10] Rimando per gli approfondimenti di questo passaggio e della prospettiva lacaniana della psicosi al mio scritto “La Psicosi Ordinaria”. Lo si può trovare su questo stesso sito: https://irp-cdn.multiscreensite.com/cea9ad19/files/uploaded/la-psicosi-ordinaria.pdf.

[11] S. Sabbatini, La clinica psicoanalitica e l'ordine simbolico del XXI secolo. Qualche considerazione. Relazione tenuta all’Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi – Roma, 26 novembre 2010. Pubblicato in http://www.psychomedia.it/isap/saggi/sabbatini2.htm.

[12] E. T. Errico, La psicosi ordinaria in Ibridamenti.com, 2017.

[13] Si pensi al paziente con falso Sé di Winnicott oppure al paziente  normotico  di Bollas.e body content of your post goes here. To edit this text, click on it and delete this default text and start typing your own or paste your own from a different source.

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