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LA LOGICA DEL DESIDERIO

Egidio T. Errico • set 07, 2019

Lezione magistrale tenuta al Master di II livello in Sessuologia Clinica presso il Centro MAP - Salerno - corso G. Garibaldi 215.


Quello del desiderio è un argomento complesso, uno dei più complessi della psicoanalisi, e tuttavia se ne parla continuamente, e comunemente, segno che quello del desiderio è anche l’argomento che più sta a cuore in ciascuno di noi.

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L’uomo è il suo desiderio

Non esiste essere umano che non si interroghi sul proprio desiderio poiché non vi è niente di più soggettivo, di più personale, di più privato del desiderio umano, al punto che possiamo dire che la singolarità di ciascuno coincide con il desiderio che vi abita. Per questo la psicoanalisi, in quanto pratica che procede attraverso l’interrogazione soggettiva, dell’uno per uno, pone al centro della sua indagine il desiderio umano, arrivando a riconoscere che l’uomo è il suo desiderio e, di conseguenza, che il desiderio è sempre in causa nella sofferenza psichica. Per questo, possiamo dire che ogni qual volta un paziente si rivolge ad un qualsiasi psicoterapeuta, in effetti vi si rivolge per avere una risposta sul proprio desiderio, sull’enigma del proprio desiderio, essendo il desiderio ciò che interroga continuamente il soggetto, in quanto, al tempo stesso, mai del tutto soddisfatto e mai del tutto eludibile. Il proprio desiderio è l'enigma fondamentale dell'uomo.

Ineludibilità e indistruttibilità sono le prime due caratteristiche del desiderio umano. Per questo, come dicevamo, esso è al centro della sofferenza psichica e della domanda di aiuto che il soggetto rivolge al terapeuta attraverso il proprioo sintomo. Possiamo dire che il desiderio costituisce l’architrave di ogni sintomo psichico e che il sintomo contiene al suo interno, nel suo nucleo, un desiderio che, non potendo essere sopportato come insoddisfatto, chiede di essere interpretato . L’impossibilità della sua soddisfazione è dunque la terza caratteristica del desiderio.



Non esiste desiderio senza un soggetto che ne sia abitato

Il desiderio su cui ci intratterremo oggi è il desiderio così come viene visto dalla psicoanalisi, è il desiderio di cui ha parlato prima di tutti Freud e poi, in particolare, Lacan. 

Dovendo affrontare oggi la questione del desiderio non possiamo infatti non rifarci al grande psicoanalista francese Jacques Lacan, in quanto è Lacan che ha dimostrato che il soggetto che interessa alla psicoanalisi non è tanto il soggetto che parla, ma il soggetto che desidera, e che anzi il soggetto vero e proprio è il soggetto desiderante.

Esiste nel nostro campo una coincidenza tra soggetto e desiderio, nel senso che quando, in psicoanalisi, in particolare quella lacaniana, parliamo di soggetto, intendiamo, non il soggetto che parla, cammina, va al bar o fa delle cose, ma il soggetto del desiderio, il soggetto che desidera, il soggetto desiderante e, d’altra parte, quando parliamo di desiderio, parliamo di qualcosa che non esiste senza un soggetto che ne sia abitato, vale a dire che non esiste desiderio se non quello di ogni singolo soggetto, uno per uno considerato. Non esiste desiderio senza un suo soggetto. Il soggetto umano è sempre un soggetto di desiderio, e il rapporto che un soggetto intrattiene con il proprio desiderio è un rapporto sempre ambivalente, in quanto, possiamo dire, che rispetto al proprio desiderio un soggetto è soggetto e assoggettato al tempo stesso.


Il desiderio è “Il disagio della civiltà"

Il desiderio è dunque quanto di più soggettivo e singolare possa esserci: ogni soggetto ha il proprio desiderio, che è suo, proprio suo, e vale solo per lui. Di conseguenza, se il desiderio è l’essenza stessa della soggettività umana, possiamo capire perché  sia proprio il desiderio a rendere ogni individuo mai del tutto adattabile e omologabile alle richieste della società in cui vive, laddove essa vorrebbe indicarci, invece, quali desideri dovremmo avere. Infatti, sin dal primo ingresso in quella che è il prototipo della società in cui viviamo, la famiglia, siamo raggiunti dalla indicazione, da parte dei genitori, di quali dovrebbero essere i nostri desideri.

Possiamo perciò dire che il desiderio è ciò che rende impossibile un perfetto e soddisfacente adattamento del soggetto alle istanze della collettività, le quali, per quanto democratiche e flessibili, non possono mai arrivare a tener conto delle singole soggettività, dovendo tutelare gli interessi dei singoli, non uno per uno considerati, ma in quanto facenti parte di una collettività. Se il desiderio è del soggetto singolo, è di ciascuno, la norma sociale è del soggetto collettivo, è per tutti. Per questo possiamo dire che il desiderio è “Il disagio della civiltà” di cui parla Freud .

Per questo, per quanto possiamo desiderare di uniformare il nostro desiderio a quello degli altri, esisterà sempre una quota che vi si sottrarrà, che non vorrà saperne di accordarsi alle richieste dell’altro. Il desiderio umano è lo scarto, la faglia tra il soggetto e gli altri, è appunto quello che viene a mancare in ciò che il soggetto usa come legame con l'altro, vale a dire il linguaggio: per cui possiamo dire che il desiderio, inevitabilmente, è ciò che, nel linguaggio può trovare posto solo attraverso la sua mancanza. Il desiderio dunque non può che essere inconscio, è l'inconscio stesso del soggetto.  

Per quanto possiamo volerlo, e per quanto l’altro possa chiedercelo, non possiamo dunque compiacere mai del tutto le sue richieste. In questo possiamo cogliere un altro paradosso del desiderio umano: da una parte, come fa osservare Lacan, ogni essere umano vuole essere il desiderio dell’altro , dall’altra parte ognuno reclama anche l’autonomia del proprio desiderio , il diritto di poter seguire, e soddisfare, prima di tutto il proprio desiderio. Questo è un aspetto di particolare importanza, su cui ritorneremo, perché è intorno al desiderio che si costituisce il modo attraverso cui ci relazioniamo all’altro . Lacan vede infatti nel fantasma soggettivo - vale a dire in ciò attraverso cui il soggetto si suppone essere per l’altro - l’insistenza del soggetto tramite il proprio desiderio, vale a dire che è nelle maglie dell'articolazione del fantasma che il desiderio compie i suoi giri senza mai trovarvi un punto di arresto: se è nel fantasma che il soggetto cerca, da una parte, l'aggancio del proprio desiderio all'altro, è nel fantasma stesso che vi trova anche, dall'altra parte, la propria difesa nei confronti dell'angoscia di potervi precipitare del tutto. E dunque, è a partire dal desiderio che, per esempio, noi formuliamo la domanda che rivolgiamo all'altro, domanda che, proprio perché mossa dal desiderio, è domanda sempre ambivalente, anche quando è domanda d'amore. Non vi è nulla, dunque, come il desiderio che, se da una parte ci sospinge verso il nostro simile, dall'altro ne condiziona il modo in senso sempre ambivalente e contrastato. Per questo Lacan, nel mettere in formula il desiderio, interporrà tra il Soggetto (barrato) e l'altro cui il desiderio si rivolge, il famoso "puntone", la losanga che vuole indicare una relazione, sempre ravvicinata e distanziata al tempo stesso, con l'altro verso cui insiste la domanda soggettiva. Il desiderio, insomma, è ciò che permette e determina l’insieme dei nostri scambi simbolici con l’altro, è la base del legame sociale. La famosa frase che Lacan fa sua riprendendola da Hegel, l’uomo è il desiderio dell’altro , vuol dire non solo che nessun essere parlante può evitare di desiderare il proprio simile, ma anche che nessuno può rinunciare a volerne essere al tempo stesso anche il desiderio.

Il desiderio è Uno e ha a che fare con la mancanza

Avrete notato che parlo di desiderio sempre al singolare. Dico “il desiderio dell’uomo”, oppure “il soggetto del desiderio” e non “i desideri dell’uomo” oppure “il soggetto dei suoi desideri”. Perché? Perché il desiderio di cui trattiamo nel nostro campo, è uno. È uno in quanto dell’Uno , di ogni singolo soggetto. Il desiderio è la struttura stessa della soggettività come effetto della castrazione: di quel soggetto che Lacan designa come Soggetto barrato, essendone il desiderio la barra che lo divide, vale a dire un sistema che mette in tensione il soggetto e lo spinge verso qualcosa a partire dal fatto che egli si avverte, si percepisce come mancante, in quanto diviso per effetto della castrazione. Il desiderio umano ha a che fare dunque con la mancanza , e questo è anche intuibile perché va da sé che, se non ci mancasse qualcosa, non potrebbe esserci desiderio, se non ci mancasse nulla, nulla potremmo desiderare.Eppure, è esperienza comune che, anche quando sappiamo di avere tutto, possiamo accorgerci di desiderare ancora qualcosa, oppure che, anche avendo tutto, continuiamo a sentirci comunque mancanti, pur non sapendo di cosa in particolare. Il desiderio sembra dunque essere sempre desiderio di altro , di qui appunto la sua natura essenzialmente insoddisfatta . Ora, se è intuibile che non può esservi desiderio senza mancanza, è molto meno chiaro di che cosa siamo così irriducibilmente mancanti, e quale sia questo altro che continuiamo a desiderare e a cercare, anche quando sembra che non ci manchi nulla. Cosa è che cerchiamo senza trovare, oppure che se ci sembra di aver finalmente trovato poi ci accorgiamo che non è quello che veramente cercavamo? Cosa è che ci manca allora? Cosa vogliamo veramente? È quello che cercheremo di capire più avanti.

Dunque, il desiderio di cui si tratta non ha a che fare con i desideri, al plurale, di cui comunemente parliamo, i desideri di questo o di quello, anche se in qualche misura ne sono pure una conseguenza. Il desiderio cui alludiamo è sempre desiderio di altro ed è inconscio: il desiderio vero e proprio, quello che interessa la psicoanalisi è il desiderio inconscio. Precisiamo: parliamo dell’inconscio proprio di quella psicoanalisi che oggi si riconosce nel solco tracciato da Freud, quell’inconscio e non inteso come il sacco dove vanno a finire pensieri, rappresentazioni, affetti non accessibili alla coscienza, né tanto meno come quella specie di sottosuolo oscuro e misterioso, il luogo dove, come in un calderone, ribollono caoticamente le passioni, irrazionali e inconfessabili.

L’inconscio che ci riguarda, l’inconscio del desiderio, è piuttosto una struttura che assembla, attraverso una logica e una grammatica precise, ciò che non può essere detto, l’indicibile, in altri termini tutto quello che pur appartenendo al soggetto in quanto parlante, al linguaggio si sottrae per esser detto in altro modo. Per questo, possiamo dire che l’inconscio freudiano è ciò che, in quanto intenzione originaria del dire del soggetto, non entra nel suo detto, vale a dire lo scarto, il resto tra l’enunciazione e l’enunciato.


Vediamo di chiarire meglio questo aspetto, anche perché è cruciale per la comprensione del desiderio, di come esso si origina, di come si struttura e di ciò che lo causa.


Il livello del bisogno

Alla nascita, il bambino deve essere accudito in tutto e per tutto dalla propria mamma, e mamma e bambino sono come uniti in una cosa sola, in una condizione di narcisismo assoluto, essendo a questo livello lo scambio tra madre e bambino soltanto speculare , dunque immaginario . Chiamiamo livello dei bisogni questa fase originaria delle cure materne. In virtù di questa condizione originaria di narcisismo - che Winnicott chiama della dipendenza assoluta e Lacan la condizione in cui il bambino è il fallo della madre - la madre risponde in maniera adeguata ai bisogni del bambino. In questa fase, quello che domina come fattore di regolazione dello scambio tra la mamma e il suo bambino è il bisogno e non ancora il desiderio. Bisogno e desiderio non sono infatti la stessa cosa, esistendo tra i due delle differenze radicali.

Il bisogno, il cui etimo deriva dal francese besoin che significa cura , designa la condizione di necessità in virtù della quale non si può vivere senza ottenere ciò che è indispensabile per la sopravvivenza, come per esempio il cibo, l’acqua, l’accudimento eccetera. Stati di bisogno sono infatti, per esempio, la fame, la sete, e tutte quelle condizioni di malessere che il bambino esprime attraverso il pianto o il grido e che la madre soddisfa, prima di tutto dando al bambino, attraverso il seno, il nutrimento di cui egli ha bisogno, il buon latte materno , e poi l’accudimento, le premure, e le coccole, profuse, come sappiamo, sia attraverso il contatto fisico (prendere in braccio, sostenere, cullare), sia attraverso la parola: una parola che però non è ancora sempre articolata, non è ancora sempre di senso compiuto, in quanto si tratta per lo più di una parola vezzeggiativa, dove il suono della voce materna conta più di quello che la madre dice. In altre parole, nella fase del bisogno, nella fase in cui il bambino dipende in tutto e per tutto dalla sua mamma, questa non solo lo nutre, ma lo fa in un certo modo, con tenerezza, sostenendo adeguatamente, coccolando e, soprattutto, parlando, e non solo: la mamma fa tutto questo inserendo il proprio bambino nella dimensione del gioco, esitando, in maniera tale che il bambino si illuda di essere lui a creare quel nutrimento che invece è la madre a fornirgli. La possibilità per il bambino di accedere all’esperienza dell’illusione costituisce infatti per Winnicott la base della sua creatività e della sua futura capacità di tollerare e di ricreare ciò che gli manca: è la base dunque della creatività intesa anche come capacità di stare nel desiderio, in quanto mancanza, e di sopportarlo.

Potete rendervi conto dell’importanza - purché nel giusto modo - dell’esperienza della frustrazione ai fini della crescita e della salute mentale. Molti dei disturbi alimentari dell’adulto, o anche della sessualità, possono essere l’effetto di qualcosa che non ha funzionato bene a questo livello, in quanto:

1)Il nutrimento è associato inevitabilmente al modo attraverso cui la madre lo dispensa e alle parole che rivolge al bambino. Per questo motivo, negli umani, il cibo non sarà mai solo un nutrimento (come è invece per gli animali nei quali la funzione del nutrimento è regolata, come quella sessuale, dall’istinto e non dalla parola) ma è anche, e soprattutto, un significante, in particolare un significante delle cure materne;

2)Dal momento che la mamma, quando dispensa le sue cure, oltre che parlare al suo bambino, lo coccola, lo tocca, lo accarezza, gioca insomma con il suo corpo, e anche con i suoi genitali e i suoi orifizi (cosa che gli animali non fanno, anche perché non hanno né le mani, né la parola, e anche se le mamme leccano i loro piccoli per pulirli, si limitano allo stretto necessario e senza tante moine e connotazioni, essendo anche questi contatti corporei regolati dall’istinto e non dalla parola) il corpo del bambino viene inevitabilmente anche sessualmente sollecitato dalle cure materne (gli orifizi sono zone erogene già nel bambino, come Freud capì e descrisse accuratamente nei Tre saggi sulla sessualità del 1905, nei quali definì infatti il bambino un perverso polimorfo e delineò le fasi orale, anale e genitale del suo sviluppo psicosessuale) e dunque il corpo diventa inevitabilmente anche il luogo di un godimento interdetto, dal momento che la madre, se da una parte squittisce gioiosa indugiando nelle manipolazioni corporee, dall’altra rimprovera quelle del bambino. In questo modo anche il corpo viene introdotto nel significante delle cure materne con la variante di cure che autorizzano e vietano al tempo stesso quel godimento che pure viene sollecitato.

L’iscrizione sia del nutrimento, sia del corpo del bambino nel significante materno sarà giustamente considerato da Lacan il vero trauma del bambino, più che quello della nascita, poiché «non è trauma semplicemente ciò che ha fatto irruzione a un certo momento e ha incrinato da qualche parte una struttura immaginata totale. […] Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi in un certo posto di quella struttura. E, occupandolo, vi assumono il valore significante che vi è connesso in un determinato soggetto. Ecco in che cosa consiste il valore traumatico di un avvenimento» ( J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII, p. 352 )

È dunque qui, in questi annodamenti del significante materno con i bisogni di nutrimento e di cure corporee del bambino, che disturbi alimentari e disturbi della sessualità dell’adulto potranno trovare la loro ragione e la loro causa.


Dal bisogno al desiderio

Durante i primi mesi di vita, dunque, il bambino riceve le cure materne, e la madre fornisce quello di cui lei effettivamente dispone (il seno, il latte, le coccole, la voce) e che corrisponde a quello che il bambino si aspetta, per cui possiamo dire che il bisogno è avere quello che si sta chiedendo a chi è in grado di darlo .

Il bisogno è perciò una domanda transitiva in quanto è domanda di un oggetto che corrisponde esattamente a ciò di cui si ha bisogno: il bisogno di nutrimento è una domanda di cibo sostenuta dalla fame, per cui fame e cibo sono rispettivamente la condizione di necessità e l’oggetto che serve per risolverla. Non si può rispondere alla fame dando acqua, quindi fame (stato di bisogno) e cibo (oggetto) sono un tutt’uno.

Freud considererà il desiderio proprio a partire dall’esperienza del soddisfacimento dei bisogni che la madre permette al proprio bambino. Il desiderio, per Freud, è la ripetizione di un’esperienza percettiva che già vissuta, soprattutto quando si era molto piccoli: un’esperienza collegata al soddisfacimento di un bisogno, e tale da lasciare, dice Freud, una traccia mnestica. Successivamente, se qualcosa nella mente inconscia rievoca associativamente questa esperienza percettiva di soddisfacimento pregresso, allora si mette in moto un’attività: il soggetto cerca, inconsciamente, di ripetere, di riprodurre, quella precedente esperienza di soddisfacimento del bisogno. Senonché, trattandosi di un’esperienza ormai perduta, di essa rimane solo la traccia mnestica , e dunque il tentativo di riprodurre nel presente ciò che è stato perduto può avvenire solo per via allucinatoria, nel sogno per esempio, e infatti non a caso Freud vedrà il sogno come l’appagamento del desiderio:

"L’immagine mnestica di una determinata percezione rimane associata alla traccia mnestica dell’eccitamento di bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si apre, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che intende reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione, e riprovocare la percezione stessa; intende dunque in fondo ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento di desiderio.” (Freud, “L’interpretazione dei sogni”, pagg. 565-566) .

Quindi per Freud il desiderio è un moto, un movimento psichico che cerca di ripristinare nel presente il soddisfacimento di un bisogno avvenuto nel passato, cui si ricollega attraverso una traccia mnestica .

I contributi successivi a Freud, da parte soprattutto di Winnicott e Lacan, rivedono il rapporto tra desiderio e bisogno, non tanto in termini di ritorno allucinatorio al soddisfacimento di un bisogno del passato ormai perduto, ma, al contrario, come uno spostamento del bisogno verso il desiderio per effetto della progressiva venuta meno da parte della madre alle cure del bambino, in modo da permettergli, oltre che l’esperienza di soddisfacimento dei suoi bisogni, anche quella della loro frustrazione (Winnicott) : vale a dire, in altri termini, che il desiderio è la conseguenza della castrazione attraverso cui passa il bambino quando si accorge, ad un certo punto, di non essere più il fallo della madre (Lacan).

Quindi il desiderio è la conseguenza di una frustrazione, o, se preferite, della castrazione a livello delle cure materne, e non il ritorno allucinatorio ad un soddisfacimento del bisogno nel passato, anche se da questa esperienza il desiderio trae il carattere della ricerca dell’oggetto perduto.

Se per Freud il desiderio si aggancia sempre alla ripetizione nel presente di un'esperienza passata, e perduta, per cui anche l'oggetto d'amore è sempre l'effige dell'oggetto perduto che si ripete nell'oggetto presente, per Lacan il desiderio apre al nuovo e l'oggetto d'amore, pur nella ripetizione, è anche un oggetto nuovo, un oggetto che sorprende e rompe, con la sua contingenza, l'autòmaton della necessità della ripetizione. Se per Freud le successive esperienze d'amore sono pur sempre delle fotocopie tutte uguali, per Lacan si accede all'amore solo in quanto esperienza del nuovo, in quanto inceppo della fotocopiatrice, essendo quella della fotocopia l'esperienza solo di ciò che attiene al godimento, e non dell'amore.


La madre parla al bambino e vi si rivolge come ad un adulto

Una madre non è soltanto una nutrice, vale a dire, non sta lì solo a nutrire il suo bambino, e non è neanche soltanto una madre che coccola e cambia pannolini. Se provvedesse solo a queste cose, sarebbe, forse, tecnicamente perfetta nel soddisfare i bisogni fisiologici del suo bambino, ma emotivamente inadeguata.

La madre efficace anche sul piano emotivo, ed affettivo, la madre sufficientemente buona , per dirla con Winnicott, è la madre che, oltre che assicurare latte, coccole e acqua di colonia, come dice Lacan, sa che deve farlo in un certo modo, e sa anche che deve parlare in un certo modo al suo bambino . Lo abbiamo già visto: è importante che la madre parli al bambino, inizialmente mediante un linguaggio dove conta più la musicalità del suono della sua voce, in grado di avvolgere il piccolo come in un abbraccio, che non l’articolazione di senso della parola che gli rivolge, e poi attraverso una parola articolata e dotata di senso compiuto

La madre insomma arriva sempre più a rivolgersi al proprio bambino come se lo vedesse già un adulto in grado di comprendere la lingua che lei ora utilizza in quanto la propria lingua, la lingua condivisa nella comunità, nella Nazione in cui vive.

In questo modo la madre prepara il proprio bambino all'ingresso nel mondo poiché, parlandogli, non solo gli insegna la lingua che in quel mondo si parla, ma gli trasmette anche il significante , vale a dire quella connotazione di senso che è al di là del significato della parola pronunciata, e che rappresenta il codice per lo scambio intersoggettivo: se infatti il significato è ciò che la parola vuole dire, il significante è il senso che il soggetto che la pronuncia vuole darle al di là del suo significato, cosa che ha permesso a Lacan di dire che il soggetto è un significante per un altro significante . Il significante è anche ciò che conferisce alla parola stessa il suo potere , una efficacia maggiore sia nel suo aspetto comunicativo, sia come mezzo per lo scambio simbolico e dunque indispensabile per fare legame sociale. In altri termini, se il significato assicura alla parola il suo valore informativo, il significante vi conferisce il suo potere performativo.

Il bambino dunque, attraverso le cure materne e grazie al fatto che la madre gli parla, impara la lingua madre , e impara a servirsi del significante, sia attraverso la sua articolazione sempre più corretta grazie al graduale adeguamento dell’apparato fonatorio, sia mediante quella concatenazione significante tale da conferire al discorso che viene a costituirsi, non solo il suo senso compiuto e condiviso, ma anche che il soggetto possa godere dell'uso che ne fa. Molti disturbi del linguaggio del bambino e dell’adulto trovano le loro ragion d’essere, le loro cause, proprio nel disturbo della comunicazione madre-bambino in questa fase. E ancora, dal momento che la parola conta non solo per il suo significato, ma anche per la sfilata dei significanti che vi insiste, un disturbo della comunicazione madre-bambino a questo livello può avere i suoi effetti anche sul piano dello sviluppo psicoaffettivo del bambino: autismo e psicosi, dal nostro punto di vista, sono in relazione, evidentemente, proprio ad un mancato accesso al significante e dunque al registro Simbolico di cui il significante è il mezzo per poterne disporre.

La madre si rivolge al bambino come ad un adulto non solo attraverso la parola, ma anche mediante il gesto : per esempio, quando ella solleva il suo bambino, lo fa in maniera tale da dargli la sensazione che non siano le braccia materne a sollevarlo, ma che sia lui stesso a farlo, da sé e con la sua sola forza. In questo modo, così facendo più e più volte, la madre trasmette al bambino un credito anticipato di soggettività e un’illusione : credere di essere un adulto ancora prima di esserlo effettivamente diventato.

Questa qualità particolare dello scambio tra la madre e il bambino, fatto di parole e di gesti materni che vanno sempre più nella direzione di favorire il distacco e l’autonomia del bambino, è cruciale, come vedremo, per la transizione dal livello del bisogno a quello del desiderio, è cruciale affinché il bisogno venga trasferito ad un livello superiore che è quello del desiderio, in quanto livello non più del grido, del pianto, ma livello della parola significante: non più livello della richiesta improcrastinabile di ciò di cui si ha bisogno, ma livello, come vedremo, della domanda di riconoscimento.


Illusione e anticipazione

Come vedete, nel corso del processo di graduale distacco che la madre consente al bambino, fattori importanti, fattori cruciali, possiamo dire, di modulazione del processo - e dunque di elevazione del bisogno a desiderio - sono l’esperienza dell’ illusione (il bambino crede che sia lui a creare ciò di cui ha bisogno) e quella dell’ anticipazione (il bambino riceve un credito anticipato di soggettività): entrambe queste esperienze spostano - traumaticamente - il bambino dal luogo della passività , entro cui lo relega il bisogno, al luogo dell’ attività , in cui lo costituisce appunto il desiderio.

Anche la famosa fase dello specchio che descrive Lacan rientra evidentemente nella logica dell’illusione e dell’anticipazione della soggettività. Già fin da quando il bambino, in ragione della sua immaturità motoria, non è ancora in grado di tenersi in piedi da solo, davanti allo specchio la madre - o comunque un adulto - gli indica la sua immagine riflessa presentandogliela come la sua: tu sei quello . In questo modo il bambino, purché sapendosi visto dall’adulto affianco o appena dietro di lui (è importante che avvenga questa doppia visione: il bambino vede la sua immagine riflessa allo specchio sapendosi al contempo visto dall’adulto dietro di lui), ne gioisce manifestando una reazione giubilatoria - è il termine che usa Lacan - con l'effetto di costituirsi anticipatamente come un Io dotato di autonomia motoria e posturale sua propria, ortopedizzato , come si dice, anche se ancora non lo è veramente. Per questo possiamo dire che la nozione di io , sapersi un io , avviene, non attraverso un processo di maturazione interna, intrapsichica, ma per effetto della riacquisizione della propria immagine riflessa nello specchio e percepita illusoriamente come di un altro. Il bambino quindi si forma come un Io attraverso un processo di alienazione soggettiva : io sono quello, il mio Io è quello lì nello specchio . Il processo di costruzione dell’Io avviene dunque per via immaginaria, illusoriamente e anticipatamente . Per questo possiamo dire che, sul piano dell’io, siamo una serie di identificazioni immaginarie che si susseguono e che l’io è, in questo senso, e come ci fa notare Lacan, il sintomo narcisistico per eccellenza , vale a dire la paranoia del soggetto.


La Simbolizzazione e l'Edipo

Il processo di graduale separazione del bambino dalla madre, grazie alla qualità delle sue cure che, come abbiamo visto, ne comportano non solo la presenza, ma anche la capacità di somministrare nel dovuto modo anche la sua assenza, se ad un livello permette lo spostamento del bambino dal regime del bisogno a quello del desiderio, attraverso le evoluzioni del linguaggio e l’apprendimento della parola significante secondo le modalità che abbiamo delineato, ad un altro livello, quello per così dire di struttura psichica , può essere descritto in termini di evoluzione dalla dimensione della dualità madre-bambino a quella della terzeità: madre-bambino-l’altro, dove l’altro, il terzo, corrisponde alla funzione paterna. Vale a dire che possiamo descrivere l’evoluzione dalla dipendenza assoluta verso la sua parziale frattura - la evoluzione cioè del bisogno verso il desiderio - anche in termini di acquisizione, accanto al registro dell’Immaginario, di quello Simbolico: il livello del bisogno essendo infatti quello dell’immaginario, mentre quello del desiderio proprio dell’ordine simbolico [1].

Da questa prospettiva, parliamo ora di processo di Simbolizzazione , in quanto si tratta, per il bambino, di elaborare in termini simbolici quello che viene a mancare come effetto dell’assenza della madre. Si tratta dunque del fatto che il bambino deve  simbolizzare una mancanza: la mancanza del fallo nella madre. Vale a dire che il bambino, a questo punto della sua storia, si trova costretto a fare i conti con il fatto che la madre è mancante proprio di quel fallo che egli pensava di essere, avendolo la madre collocato, come abbiamo visto, proprio nel posto che reca l’insegna della sua mancanza. Abbiamo visto che all’inizio il bambino è tutto per sua madre, e se è tutto, di conseguenza, la madre, nell’esperienza di entrambi, non manca di nulla. Quindi la madre non è castrata: ha il fallo in quanto ha il suo bambino.

Se, per il bambino, essere il fallo della madre è fondamentale nei primi mesi perché è proprio questa condizione che gli assicura la presenza materna in tutto e per tutto, non lo sarebbe altrettanto se continuasse ad esserlo per troppo tempo. E infatti, se tutto va bene, prima o poi la madre stessa, pur godendo della sensazione di appagante ripienezza che le deriva dal sentire il bambino come il suo fallo, avvertirà - si spera - che sarà pure bene che cominci, gradualmente, anche a venir meno alla sua funzione di accudimento assoluto, e dunque a distaccarlo sempre più dalla posizione di fallo nella quale lo ha finora collocato. Insomma, la madre deve cominciare ad accedere all’esperienza che il suo bambino non è tutto per lei e permettere al tempo stesso che condivida dal canto suo la stessa esperienza: solo così egli può realizzare di non essere più il fallo di sua madre, di non essere più il suo unico, assoluto desiderio .

Questa fase di distacco, di passaggio dall’essere un tutto all’essere un non tutto , e che, possiamo dire, corrisponde allo svezzamento (il bambino non si nutre più del solo latte materno, ma anche di altro ) è resa possibile dal fatto che al cosiddetto desiderio della madre (di essere l’unico desiderio per suo figlio e di avere come desiderio unicamente suo figlio) subentra gradualmente anche il desiderio della donna, della donna che una madre non dovrebbe mai dimenticare di essere, e che è desiderio non più solo per il suo bambino, ma anche per altro, per il suo uomo, per esempio, che in genere è poi anche il padre del bambino. o comunque quell’altro che la madre avrebbe collocato nel luogo simbolico del padre.

Ed è il Padre che entra in funzione come causa del desiderio della madre verso di lui, dal momento che il padre è in effetti non altro che ciò che interdice il desiderio d'incesto tra madre e bambino: in Freud, vietandolo al bambino, in Lacan, vietandolo alla madre, nel senso che per Lacan, il padre si rivolge più alla madre che al bambino: "non è lui il fallo che puoi desiderare, perché il fallo del tuo desiderio lo posseggo io",  liberando in questo modo il bambino dal desiderio materno, che diventerebbe altrimenti un desiderio cannibalico. 

Vedremo a breve quanto sia importante per il bambino trovare il luogo del desiderio materno occupato da un padre , vale a dire da quella figura che viene incaricata dalla madre a svolgere le incombenze di padre nel modo dovuto: mi esprimo in questi termini perché, anche se la funzione di padre è generalmente assunta dal padre generativo, il padre che conta è il padre riconosciuto e presentato in quanto tale dalla madre, è il padre nominato dalla madre, il padre che ella mette in funzione.

È in questo modo, grazie alla nominazione paterna ad opera della madre, che la relazione duale madre-bambino può fratturarsi per dare spazio al terzo, e dunque alla movimentazione dell’Edipo .

L’Edipo significa che, se l’altro occupa il posto del padre per incarico della madre, è per lo più perché, dal canto suo, il padre fa della madre l’unico oggetto del suo desiderio: la madre mette l’altro nel luogo del padre, a patto che questi metta la madre nel luogo del proprio desiderio. In tal modo la madre sostituirà più facilmente il  desiderio della madre, che va verso il suo bambino, con il desiderio della donna, che va invece verso altro, il proprio uomo per esempio, e il bambino, dal canto suo, potrà rendersi conto che, se pure perderà il privilegio di essere il fallo immaginario della propria madre, tuttavia guadagnerà quello, di ordine superiore, di ricevere, ora, dal padre il fallo simbolico, grazie al quale potrà desiderare tutte le donne del mondo tranne una, quella che, in quanto sua madre, è l’unica donna che invece il padre potrà desiderare, ai suoi occhi.

Come vedete l’Edipo è dunque l’apparato che, vietando il godimento dell’incesto, permette lo spostamento del bambino dal registro del bisogno a quello del desiderio: l’Edipo è ciò che presiede, come effetto della simbolizzazione della castrazione della madre, alla costituzione del desiderio e alla sua giusta distribuzione tra i soggetti in cui si implica, giusta distribuzione cui presiede - ed è questo l'apporto lacaniano all'Edipo freudiano - non il padre, ma un quarto elemento, (oltre i tre coinvolti classicamente in Freud, del padre, della madre, e del bambino) e cioè il Fallo, quel significante che permette l'effetto di significazione di ogni significante.

Andiamo a vedere adesso come le cose si dispongono rispettivamente dalla parte della madre e da quella del bambino.

La madre

La madre dunque provvede al graduale distacco da sé del bambino, condizione ineludibile per il suo ingresso nel mondo e per poter stabilire relazioni con i suoi simili.

Ma cos’è, nella madre, che le permette di rinunciare al godimento che trae dall’essere tutta per il proprio bambino e , distaccandosene progressivamente, di optare invece per essere ora non tutta? Glielo permette il suo desiderio. È il desiderio che la sostiene nella rinuncia al godimento, in quanto il desiderio che il bambino possa intraprendere il proprio percorso di separazione supera (o dovrebbe superare) il godimento di trattenerlo tutto a sé. Solo un desiderio può permetterle di tollerare che anche il proprio bambino sia ora non tutto per lei, e di sostenerlo in questo.

Vedete la forza del desiderio nel mettere la madre nella condizione di porre un limite al proprio godimento, e vedete pure come, di conseguenza, sia proprio la possibilità di transitare dall’esperienza condivisa di essere un tutto , a quella di essere ora un non tutto a rappresentare uno snodo cruciale per la crescita del soggetto umano. Alla base della salute mentale troviamo infatti la condizione del non tutto, non quella del tutto , essendo la prima la condizione del desiderio, la seconda quella del godimento cui il desiderio impone il suo limite.

In che modo opera il desiderio nella madre?

Possiamo dire che il desiderio opera secondo una logica di sostituzione (la logica del desiderio è sempre una logica di sostituzione e il desiderio è di per sé metonimico ): la madre può sopportare il lutto (ogni processo separativo è un lutto) del distacco dal proprio bambino se è in grado di sostituire il proprio godimento di madre con il godimento di donna, vale a dire, se riesce a sostituire il suo essere del tutto madre con il suo essere anche una donna.

La sostituzione ad opera del desiderio della madre è dunque una sostituzione di godimento: la madre riesce a dire non al godimento d'incesto per il figlio se può guadagnarne subito dopo un altro di ordine superiore e che è il godimento della donna per il proprio uomo o comunque per altro. Questa sostituzione di godimento è importante perché, se dal lato del figlio rende impossibile l'incesto, dal lato della madre, fa della madre di nuovo una donna desiderante di altro , in particolare di quell’altro che è il proprio uomo, e del proprio uomo non solo in quanto partner sessuale, ma anche in quanto colui che ella mette nel luogo di padre, perché è grazie a questa sostituzione di godimento che la madre può arrivare a presentare un padre al proprio bambino, iniziandolo in questo modo all’Edipo.

Chiamiamo metafora paterna l’insieme di questo processo di sostituzione di godimento che di fatto permette ad una madre di desiderare l’entrata in scena del padre. In altre parole, se la metafora paterna, vietando nella madre il godimento d'incesto, l'autorizza al godimento della donna, un padre, di conseguenza, è una metafora, un simbolo, una funzione attivata dalla madre stessa. Ora, che la madre attivi questa funzione è fondamentale, perché solo in questo modo un bambino, o una bambina (le cose avvengono a questo livello per entrambi allo stesso modo), può introiettare, installare dentro di sé la rappresentazione della figura paterna come funzione normativa, come quella Legge interna che fissa il principio del limite, del no, che è limite e no prima di tutto, come vedremo, al godimento - vale a dire al tutto e subito. Si tratta della precondizione del desiderio, poiché il desiderio è proprio la capacità di tollerare il no , di optare per la rinuncia a un godimento immediato per qualcosa di più utile e costruttivo in un secondo momento, e di un ordine superiore. Per questo il desiderio è anche ciò che permette - anzi obbliga - un soggetto alla sua etica, vale a dire ad un sapere circa quello che può e quello che non può fare.

Lacan chiama il Nome-del-Padre questa struttura che il bambino preleva dalla presentazione che ne fa la madre e che si costituisce dentro di lui, come abbiamo visto, non solo in quanto Legge - la Legge che, vietando il godimento dell’incesto, fonda appunto il desiderio - ma anche in quanto architrave stabilizzante del soggetto, dal momento che la logica del limite, del non tutto e non subito , l’inclusione del no come opzione possibile che può precedere talvolta anche il sì, dona al soggetto la possibilità di reperire, stabilire, sopportare, fissare quei punti fermi che servono a punteggiare un discorso, a concedersi una pausa, a poter aspettare altri tempi o altre opportunità, ad arrestare in tempo le cogitazioni del pensiero, l’impellenza dei bisogni, la spinta coattiva delle pulsioni, e soprattutto a imporre un freno al godimento che altrimenti, come dice Lacan, può iniziare come un solletico e finire come un incendio. Insomma, senza questa funzione, del Nome-del-Padre, non vi è possibilità di struttura soggettiva che possa sostenersi nel suo stare al mondo.

Disturbi della sessualità femminile dopo uno svezzamento e molti disturbi psichici del bambino prima, dell’adulto poi, dall’autismo, alla psicosi, alla schizofrenia, sono spesso l’effetto, la conseguenza della mancata iscrizione del Nome-del-Padre, nella madre come nel bambino.

Il bambino

Durante il progressivo distacco dalla madre il piccolo si trova a dover fare i conti con un fatto nuovo, da una parte inatteso, dall’altra però anche non del tutto inatteso, in quanto la madre, se è, come dice Winnicott, sufficientemente buona , in effetti avrà provveduto anche a prepararlo progressivamente al fatto che le sue cure non sono per sempre. E tuttavia, in quanto, se pur progressivamente, e amorevolmente , madre che ora non dona più solo nutrimento e accudimento incondizionato, non assicura più solo presenza, ma comincia a donare anche assenza è, e deve essere, nella percezione del bambino anche una madre sufficientemente cattiva , come giustamente osserva lo psicoanalista lacaniano Eric Laurent . Diciamo, insomma, che la madre che funziona è - sempre dal versante del bambino - un misto di buono (presenza) e di cattivo (assenza). E dunque, il fatto nuovo che il bambino si trova ora a dover affrontare è quello di non essere più tutto per la propria mamma. Il bambino accede all’esperienza traumatica di non essere più l’unico desiderio della madre, di non essere più il fallo della madre, e dunque, di conseguenza, che ella non ha alcun fallo: ne è priva. Noi chiamiamo questa esperienza della privazione del fallo nella madre la castrazione della madre . L’esperienza che il bambino fa di non essere più il desiderio unico e solo della madre è una esperienza di castrazione: qualcosa viene a mancare, e lì dove vi era un pieno nella unione assoluta con la madre, ora lì vi è una faglia, una frattura, una beanza. Come abbiamo visto dal lato della madre, è il desiderio della donna che, facendo del desiderio della madre un desiderio non più tutto e solo per il proprio bambino, ma anche un desiderio di altro , a causare il decentramento del bambino dalla posizione privilegiata di essere il suo unico desiderio. Possiamo solo accennare qui, en passant, che questa frattura, come tutte le fratture, oltre che essere traumatica, lascia anche dei pezzi, dei resti , che provenendo da ciò che univa il bambino alla madre, ne portano la traccia, resti che Lacan, nell'insieme, chiama, al singolare, l'oggetto piccolo a , che corrisponde più o meno, in un certo senso all' oggetto transizionale di Winnicott - in quanto anche questo sta tra il bambino e la madre - e che rimanendo quindi, come dire, al di qua della separazione, alle sue spalle, è designato da Lacan come l'oggetto causa del desiderio, nel senso che essendo - l'oggetto piccolo a - ciò che è stato perduto in seguito alla separazione, è il vero oggetto del desiderio, ma in quanto causa, non potendo essere più ritrovato come oggetto del suo soddisfacimento. Il che spiega l'impossibilità della soddisfazione del desiderio: l'oggetto che il desiderio cerca è l'oggetto che lo causa e non quello che possa permetterne il soddisfacimento, perché questo oggetto è perduto per sempre, è ormai alle spalle.

Il bambino deve dunque fare i conti con il fatto che la madre desidera ora anche altro , un altro che al bambino appare per il momento misterioso ed enigmatico. Lacan giustamente sottolinea che il desiderio della madre deve poter diventare un desiderio enigmatico nella percezione del bambino, in quanto rimanda ad un altro di cui il bambino non sa ancora nulla, e che per questo si tinge di mistero e di angoscia. Vedete qui il valore positivo che l’angoscia riveste per la crescita del soggetto.

Si profila in questo modo l’ingresso nella scena del terzo, di quel terzo che sarà ben presto incarnato da quella figura che, come abbiamo visto, dal suo versante, la madre colloca nel luogo del padre.

Il bambino può dunque fare i conti con questo terzo, che imparerà a riconoscere come il proprio padre, solo passando attraverso il trauma della scoperta della castrazione della madre. Questo significa, in altri termini, che un soggetto può introiettare un padre come funzione, come il Nome-del-Padre che abbiamo conosciuto, solo a patto che accetti la castrazione della madre, e dunque possiamo dire che un padre è quella figura che una madre erige sulla propria castrazione.

Il riconoscimento da parte del bambino della castrazione della madre - che Freud designa con il termine di Bejahung - è dunque un passaggio fondamentale, poiché, come vedremo, sarà dalla sua adeguata elaborazione che dipenderà il destino del bambino verso la salute o verso la malattia.

La Bejahung è dire di sì alla mancanza, ammetterla, riconoscerla, non negarla, e dunque possiamo considerarla la base del processo di elaborazione di ogni mancanza e di ogni perdita successive, processo di elaborazione che abbiamo chiamato di simbolizzazione , in quanto consiste nel fare della perdita, e di quel vuoto che essa lascia, qualcosa d’altro che serve, non a negarlo, non ad otturarlo, ma a rappresentarlo : funzione di rappresentazione cui presiede quel significante di tutti i significanti che è il Fallo ( ɸ ), con la F maiuscola, questa volta, per distinguerlo dal fallo, con la f minuscola, che è il fallo - immaginario - della madre la cui mancanza, il Fallo - simbolico - deve ora, appunto, simbolizzare. Per questo, possiamo dire che il Fallo, è il segnale che indica che da qualche parte, là dove ce lo aspettiamo, il fallo manca, vale a dire che il Fallo è l’insegna di una mancanza.

La Bejahung - base di ogni simbolizzazione - è dunque precondizione sia della significazione del Fallo (Lacan), sia della rimozione di ciò che riconosce, la castrazione, in quanto la sua simbolizzazione è inconscia, anzi movimenta il lavoro dell’inconscio.

In sintesi, possiamo dire che la possibilità di tollerare la castrazione, il fatto cioè che siamo mancanti, uomini e donne, del fallo della madre, e dunque la possibilità che si costituisca la condizione del desiderio, discende direttamente dall’esperienza di riconoscimento, rimozione e simbolizzazione della castrazione materna, resa possibile, come abbiamo visto, dall’ingresso del padre nella scena del legame madre/bambino ad opera del desiderio della madre, che lascia il posto al desiderio della donna: l’insieme di questi passaggi costituisce l’apparato dell’Edipo visto dalla parte del bambino: e dunque vedete ancora una volta l’Edipo come quella sorta di laboratorio nel quale il bambino entra come soggetto di bisogni e ne esce come soggetto di desiderio.

Freud ha visto nel famoso gioco del rocchetto del nipotino Ernst ( fort-da ), che descrive in Al di là del principio di piacere (1920) , il modo attraverso cui il bambino fronteggia sia l’angoscia dell’allontanamento della madre, quindi della sua assenza, e sia anche quella del suo ritorno, quindi della sua presenza, vale a dire l’angoscia di questo andirivieni della madre che il gioco del va e vieni del rocchetto serve a simbolizzare, poiché trasmette al bambino l’illusione che sia lui a controllarlo. Un modo dunque per affrontare l’enigma del desiderio della madre e dunque di elaborare la castrazione materna. Un modo che in fondo corrisponde all’uso che il bambino fa del famoso oggetto transizionale descritto da Winnicott.

È in questo modo allora, a partire cioè dalla Bejahung della castrazione materna e dalla sua simbolizzazione, che può strutturarsi il desiderio, e di conseguenza è nella misura in cui la madre sa rendere enigmatico il proprio desiderio che può produrre lo spostamento del bambino dall’ordine del bisogno a quello del desiderio.

Come effetto di questo spostamento, il bambino accede alla domanda, in quanto può mettere il bisogno sotto forma di domanda intransitiva. Per questo il desiderio è ciò che rende possibile la domanda rivolta all'altro e che non è più domanda di questo o quello, ma domanda di riconoscimento.


La domanda del bisogno e la domanda del desiderio

Vedete dunque che il desiderio, la possibilità che si strutturi nel soggetto la funzione del desiderio, senza la quale non può esservi salute e vita psichica, è l’effetto del superamento del bisogno grazie, diciamo così, all’ azione della madre - azione causata dal padre in quanto funzione (metafore paterne) - nella misura in cui ella sa far venire meno la prontezza della  risposta, sa introdurre la frustrazione - il no – come elemento di crescita. Solo dalla frustrazione del bisogno la posizione del bambino, da passivo-dipendente, può evolvere verso quella attiva di soggetto che organizza la domanda a partire da un desiderio e non più da un bisogno.

Possiamo quindi dire che il desiderio rappresenta lo spostamento del discorso, l’acquisizione di un modo nuovo di rapportarsi all’altro mediante l’uso del linguaggio.

Nella fase del bisogno non vi è possibilità di accedere ad un discorso che includa la domanda. La condizione del bisogno si struttura intorno alla richiesta, alla pretesa e pone l’altro nella funzione d’uso, nella funzione di strumento che deve prontamente soddisfare la richiesta che è dunque domanda transitiva , vale a dire domanda di ciò che serve e di cui non si può fare a meno, e dunque presuppone che l’altro sia in grado di dare quello che serve. La madre del bisogno è la madre che dà quello che ha.

La posizione del desiderio invece comporta l’acquisizione del fatto che la madre dà quello che non ha , vale a dire l’acquisizione del fatto che la madre è castrata , è non tutta per il suo bambino. Di conseguenza il bambino deve fare i conti con la mancanza, con il fatto che l’altro manca proprio di quello che ha perduto e che dunque non gli potrà mai più rendere.

Il desiderio è dunque ciò che spinge alla domanda che rivolgiamo all’altro nella speranza che possa darci quello che abbiamo perduto, ma si tratta di una domanda impossibile perché, ovviamente, l’altro è anch’egli sprovvisto esattamente di quello che cerchiamo, perché perduto anche per lui. Per questo la domanda sostenuta dal desiderio è una domanda di riconoscimento: che l’altro riconosca il nostro desiderio. Il desiderio dell’uomo è sempre il desiderio dell’Altro , dice Lacan, dove il dell’Altro è da intendersi sia in senso genitivo, che oggettivo.


Il desiderio e l’amore

Se il desiderio si struttura a partire dalla mancanza, si organizza intorno ad una mancanza, è esso stesso mancanza. Possiamo dire che il desiderio è la struttura stessa della mancanza e che per poterlo tener vivo dobbiamo allora saper amministrare quella mancanza su cui esso si fonda. Saper amministrare la propria mancanza (il soggetto è una mancanza-a-essere, dice Lacan) significa evitare, come invece oggi spesso e diffusamente non succede, di riempirla di qualsiasi cosa possa servire a questo scopo: i gadget, le sostanze, le droghe, i farmaci, il cibo, il sesso. Ma anche i saperi, le scienze, le religioni, che, facendo credere di poter risolvere e spiegare tutto, e di poter colmare ogni vuoto, possono essere utilizzate per realizzare un pieno là dove non sopportiamo possa esserci un vuoto, il vuoto di sapere, appunto. Il desiderio è invece la capacità di tollerare che non tutto può esser compreso, non tutto può essere capito, non tutto si può sapere. Essere nel proprio desiderio significa fare della propria mancanza un punto di forza e non di debolezza, perché è solo dalla mancanza che possiamo creare il nostro sapere, soprattutto il sapere su noi stessi, quel sapere soggettivo che non corrisponde a quel sapere prestabilito che la scienza vuol farci credere che tratti effettivamente di noi.

Ma dalla mancanza soggettiva non proviene solo la creatività: è a partire dal nostro vuoto, se sappiamo non saturarlo immediatamente e in ogni caso secondo la logica del tutto e subito, che noi possiamo rivolgerci a qualcuno facendone il destinatario della nostra domanda d’amore.

L’amore si sostiene sul desiderio ( un amore senza desiderio è un amore morto, avverte Lacan) ed è causa di desiderio. Non esiste amore possibile se non quello che mette in causa il nostro desiderio, dunque la nostra mancanza. Rendersi amabili, farsi amare, far innamorare di sé, oltre che naturalmente potersi innamorare, significa saper causare il desiderio in sé stessi e nell’altro, e dunque, siccome il desiderio è mancanza, amare significa causare la mancanza nell’altro. Di qui il noto aforisma di Lacan che l’amore è dare quello che non si ha . La domanda più frequente degli amanti, dopo mi ami? E' ti manco? Ogni amante vuole sentirsi dire dalla persona amata che le manca.

Dunque, l’amore, in quanto alimentato dal desiderio, è scambiarsi le rispettive mancanze, come hanno capito molto bene i poeti. L’amore non è certo scambio di doni, quella è semmai la festa - dice Lacan - l’amore è invece scambio di mancanza nella presenza che ognuno sa assicurare all’altro, perché far sentire la mancanza non significa essere assenti, ma al contrario, garantire una presenza che non saturi, che sappia rispettare, anzi, causare la mancanza.

Spesso l’amore è invece inteso come ciò che ci deve appagare e non farci sentire mancanti di nulla. Ma questa è il godimento, la dipendenza, la droga, non l’amore: molti disturbi delle relazioni tra i sessi ruotano intorno a una tale confusione.

Se gli amanti si scambiano quello che non hanno, tenendo in questo modo vivo il desiderio, dall’altra parte l’amore è ciò che si sostiene attraverso la domanda, non di questo o quello, ma di riconoscimento: io chi sono per te? Cosa rappresento per te? Ecco, il desiderio che è alla base della domanda d’amore è desiderio di riconoscimento ed è sempre un desiderio che si rivolge ad uno in particolare. A differenza di quei legami, spesso, come abbiamo visto, scambiati per amore, ma che si basano invece sulla dipendenza dall’altro in quanto l’altro del soddisfacimento, l’altro che dà quello che ha e dunque che in quanto tale è un altro sostituibile, l’altro del bisogno e non l’altro del desiderio, il legame d’amore si rivolge ad uno in particolare, all’altro che ci dice qualcosa e solo a noi e che è causa, non soddisfacimento, del desiderio, l’altro che dà quello che non ha, un altro dunque insostituibile, perché, come dice Lacan, l’amore è sempre l’amore per un nome. Quel nome che siamo riusciti a mettere nella intimità di quel luogo, nostro e solo nostro, che è il luogo della causa e non della soddisfazione del desiderio: il luogo del nostro desiderio, il luogo del nostro oggetto piccolo a, il luogo del nostro amore.

























[1] Bisogna tener presente che, se pure è corretto esprimerci in termini evolutivi, in quanto si tratta, nel bambino, di un processo di arricchimento di possibilità ulteriori, grazie alla funzione materna, sul piano linguistico, operazionale, di autonomia e di esperienza soggettiva in relazione all’altro (esperienza duale/immaginaria verso quella terza/simbolica), i livelli di cui parliamo non sono da intendersi come superati e ormai relegati nel passato man mano che si acquisiscono quelli di ordine superiore. Piuttosto, si tratta di evoluzione in cui i livelli successivi non sostituiscono i precedenti, ma vi si aggiungono e si annodano tra di loro costituendo così il modo di essere del soggetto nell’attualità della sua esperienza.


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